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Un crowdjournalism per il Paese

Crowdfunding per il giornalismo. Anzi, no. Crowdfunding per il giornalismo sociale. Anzi, no. Crowdjournalism per la società. Mettetela come volete, ma sono giorni piuttosto interessanti per chi aspetta un nuovo giornalismo italiano. Ma anche per chi, attraverso il giornalismo, scommette sull’opportunità di un rinnovo di modello socio-economico più vasto.

La scorsa settimana, il 31 gennaio, si è chiusa con successo la maxiraccolta di fondi online (oltre 110mila euro) che ha “salvato” il Festival del giornalismo di Perugia. Venerdì prossimo, allo Iulm, sarà presentata ufficialmente l’iniziativa “Gli occhi della guerra”, grazie alla quale è già stato possibile, con raccolte lampo tra i 3 e i 5mila euro, inviare corrispondenti sui fronti di Ucraina, Afganistan e Libia.

La prima considerazione è che c’è una grande voglia di nuovo giornalismo, di impegno, di novità. È la conferma che il giornalismo può riappropriarsi di un’anima sociale, e che la società stessa è alla ricerca di nuovi modelli che vadano oltre l’attuale sistema dei media orientato ai volumi, e da qui ai numeri pubblicitari.

PASSIONE E INVESTIMENTO

La seconda considerazione è che la passione è pronta a trasformarsi in investimenti. Attenzione. Soprattutto a Perugia, l’operazione si è fatta principalmente con gli sponsor che hanno coperto oltre il 70% della raccolta, una trentina di Gold Donors che otterranno visibilità per il proprio logo. Interessante il commento di Chiara Spinelli, segretaria dell’Italian Crowdfunding Network, sulla polemica avanzata di chi, per la preponderanza dei big, ha parlato di fundraising e non di crowdfunding. «L’obiettivo del crowdfunding – ricorda Spinelli – è sia il funding sia la crowd, la raccolta dei soldi quanto l’aggregazione di una community coesa e appassionata». Ebbene, ci saranno stati anche gli sponsor, ma su Perugia hanno scommesso almeno 700 persone che hanno versato una media di 39 euro, assai più alta rispetto alla media del crowdfunding reward e donation based. È anche su questa crowd che hanno investito gli sponsor.

È difficile immaginare che siano le “dediche” sulle inchieste degli inviati di guerra o i reward (i gadget) del Festival a scatenare la partecipazione. È più ragionevole pensare che questo sia il potenziale di raccolta di una impresa sociale. Cioè un’iniziativa che coinvolge una comunità, la quale comunità è consapevole di trarre beneficio dall’attività finanziata. Questo tipo di crowdfunding, volendo estremizzare, è la quantificazione monetaria del valore sociale di una “impresa” (quanto la comunità è disposta a pagare per quel valore).

Per garantirsi il successo in questo ambito, è evidente che occorre avere le credenziali giuste, un track record sociale senza sbavature. Ma anche saper proporre qualcosa che lasci sognare un cambiamento. Iniziative con queste caratteristiche potrebbero attingere al potenziale nascosto della finanza “responsabile” nazionale. “Nascosto” perché non è la prima volta che ETicaNews denuncia un gap paradossale (vedi articolo “Gli italiani ci sono ora tocca agli Sri“): in Italia esistono capitali pronti a essere investiti in modo “diverso”. Solo che non si trovano le occasioni giuste per investirli.

Ebbene, il giornalismo, questo povero e malandato e bistrattato animale, sta dimostrando quanto sia possibile rivitalizzare un Paese ridisegnandosi in chiave “crowd”, ovvero integrandosi e divenendo emanazione della comunità. E, nello stesso tempo, ridisegnandosi come modello imprenditoriale.

IL TESORO DEL SOCIAL

La terza considerazione allarga dunque il tiro. La sensazione è che, a ruota del giornalismo, potrebbe muoversi un gran numero di imprese sociali (vedi le 100mila imprese sociali nascoste secondo Iris Network). Le quali hanno oggi l’opportunità di quantificare il proprio valore nella comunità con lo strumento dell’equity crowdfunding. Strumento che consentirebbe alla comunità non solo di sostenere quel valore, bensì di divenirne in minima parte co-proprietaria. Potrebbe essere la chiave per scardinare le barriere, anche di fiducia, che fino a oggi hanno tenuto separate le iniziative sociali dai capitali Sri (socially responsible investing).

Se l’entusiasmo e i numeri sono questi, si capisce perché qualcuno cominci a pensare al raising di un fondo che investa nel social equity crowdfunding.

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