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Perché è importante che gli Stati finanzino la ricerca di base

Potrebbe essere un promemoria per il nuovo ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca. Invece è un articolo scritto da W.H. Press (Consigliere per la Scienza e la Tecnologia del Presidente Americano Obama, e prima Professore di Fisica ad Harward) pubblicato su Science tre mesi fa (Science 15 NOVEMBER 2013 VOL 342: 820) e basato sul discorso tenuto da Press in occasione della sua elezione a Presidente di AAAS (The American Association for the Advancement of Science) nel 2012.

Si rivolge agli americani ma dice cose che possono interessare anche noi italiani. A partire dal grafico che potete vedere sopra e che è una versione semplificata di quello pubblicato su Science.

Un’analisi retrospettiva
L’articolo parte dalla considerazione che il PIL americano è cresciuto in modo quasi esponenziale negli ultimi 130 anni e si chiede quale sia la base di questo successo. La risposta è semplice: il successo NON dipende dalle risorse naturali, NON dipende neanche dall’aumento della forza lavoro. DIPENDE dal capitale, che oggi vuol dire anche “Proprietà Intellettuale”. Dipende dagli investimenti in ricerca di base.

Se si mettono in grafico gli investimenti pro-capite che ogni nazione ha fatto in R&D (Ricerca e Sviluppo) nel 2012 e il numero di ricercatori per milione di abitanti si vede che gli stati possono venir raggruppati in tre classi:
1- Leaders tecnologici. Le nazioni industrialmente più forti sono tutte nel quadrato verde (in alto a destra); sono quelle che negli ultimi 50 anni hanno fatto i maggiori investimenti in R&D.
2- Inseguitori. Nel riquadro giallo si ritrovano la maggior parte degli stati europei che spendono in R&D 1/3 meno di quelli nel gruppo verde e hanno meno scienziati.
3- In via di sviluppo. In questo gruppo sfortunatamente si trova anche l’Italia a testimonianza della poca attenzione che i nostri politici hanno avuto per la ricerca. Poca attenzione che a mio avviso è uno dei motivi dell’attuale situazione economica del paese.

Esiste una relazione causa-effetto tra soldi investiti in R&D e sviluppo economico.
Le tesi dell’articolo è che la ricerca è il motore della crescita esponenziale dell’economia americana perché crea nuove possibilità di sviluppo economico. E’ stato stimato che gli investimenti in ricerca di base hanno un tasso annuale di rendimento tra il 20 e il 60%, meglio di qualsiasi altro investimento attualmente disponibile (i nostri BOT rendono meno del 10%). Aumentare il “sapere” produce inevitabilmente sviluppo tecnologico con riflessi positivi sull’economia e sulla ricchezza del paese. E maggior ricchezza vuol dire maggiori investimenti in ricerca di base innestando un circolo virtuoso che si autoalimenta.

Tuttavia, una caratteristica degli investimenti in ricerca di base è che il rendimento non va all’investitore ma a tutta la comunità. La ricerca di base e i suoi risultati rappresentano un bene comune che migliora lo stato di benessere di tutti, non solo di chi investe. Proprio per questo non ci si può aspettare che le imprese investano in ricerca di base: sarebbe economicamente improduttivo. Proprio per questo la ricerca di base è finanziata principalmente dagli stati (chi più, come gli Usa, e chi meno, come l’Italia) con le tasse. Stati che poi lasciano che alle imprese lo sfruttamento economico delle tecnologie sviluppate. La ricerca di base produce brevetti, conoscenze, tecnologie che possono venir applicate alla produzione e sostenere / innescare lo sviluppo economico. Non è ipotizzabile che la ricerca di base venga finanziata in modo importante dalle imprese perché queste hanno bisogno di ritorni economici a breve o medio termine, mentre la ricerca di base ha bisogno di tempi molto lunghi. Non è nemmeno pensabile, contrariamente a quanto pensano molti politici, che lo stato si faccia carico solo della ricerca applicata abbandonando la ricerca di base in nome della crisi economica. Alla lunga questa è una strategia perdente. Rinunciare oggi alla ricerca di base vuol dire in futuro rinunciare allo sviluppo economico.

 

Come si può continuare a sostenere la ricerca di base in un mondo globalizzato?

Oggi la globalizzazione e la velocità con cui si diffondono le conoscenze pongono dei problemi a questo sistema virtuoso del finanziamento statale alla ricerca di base. Nel suo articolo Press sottolinea che una scoperta fatta in USA e pagata dal contribuite americano potrebbe venir utilizzata in altri stati ancora prima che negli USA. Temo che l’Italia rientri nel gruppo di stati che cercano di utilizzare le ricerche fatte all’estero piuttosto che promuoverne delle proprie. Una scelta politica discutibile. La preoccupazione è che sulla base di considerazioni di questo tipo il governo Americano decida di ridurre i finanziamenti alla ricerca.

La soluzione che  Press  propone alla sfida posta dalla globalizzazione è che bisogna favorire l’immediato trasferimento applicativo delle scoperte in modo che possano venir sfruttate dove vengono fatte. Per questo si deve promuovere l’integrazione tra centri di Ricerca – Università – Imprese. A questo dovrebbero servire le “start up”, gli “spin-off”, gli “incubatoti di impresa”, i “parchi scientifici e tecnologici”. Tutti strumenti utili e importanti per far nascere un nuovo mondo produttivo. Importanti quando sono reali e non solo dei mezzi per ottenere fondi pubblici come purtroppo talvolta avviene.

Quanto investire in ricerca.
La scienza cambia il nostro modo di vedere la realtà, offre risposte a problemi di interesse generale come le malattie o il riscaldamento globale. E soddisfa il nostro bisogno innato di conoscere e comprendere. Uno scoperta può salvare migliaia di vite (pensate alla scoperta della penicillina), può creare nuove possibilità di lavoro, può creare ricchezza e conseguentemente permettere di immettere nuovi soldi nella ricerca. Ma le grandi scoperte sono imprevedibili, come pure le loro conseguenze. Non è possibile (come alcuni propongono) finanziare solo le ricerche che daranno un profitto o un risultato immediatamente trasferibile. Semplicemente perché nessuno può sapere quale ricerca di base darà un risultato interessante dal punto di vista applicativo. Le scoperte che hanno reso possibile la nascita del mondo tecnologicamente avanzato in cui oggi viviamo nascono da ricerche su argomenti poco comprensibili 50 anni fa, condotte per soddisfare la curiosità degli scienziati non per aumentare il PIL. Pensate alle ricerche che hanno portato allo sviluppo dell’elettronica o alla genomica che nel prossimo futuro rivoluzionerà le nostre vite.

Allora come facciamo a capire “quanto” e “per quanto tempo” finanziare la ricerca? Un buon metodo secondo l’articolo di Press, è quello di continuare a finanziare nella convinzione, su pure considerazioni statistiche, che prima o poi qualcosa di buono verrà fuori. E quel qualcosa ci ripagherà ampiamente degli investimenti fatti. Fino ad ora è stato così. Fino ad ora la ricerca di base ha prodotto molto di più di quello che è costata.
Ma quale è la frazione del PIL che è logico investire? Se torniamo al grafico iniziale la risposta è ovvia. Una quota del PIL intorno al 3% . Come fanno e hanno fatto le potenze economiche nel riquadro verde. Non certo il modesto 1% o poco più che viene investito nei paesi sottosviluppati o in l’Italia.

Voglio finire con una citazione di un discorso di George Washington riportata all’inizio dell’articolo di Science: “Non c’è nulla che meriti il nostro patrocinio più che la Scienza e la Letteratura. La conoscenza, infatti, rappresenta il modo più sicuro per aumentare la felicità della gente”.

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