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Sanremo canta il sesso. Precario

Da 64 anni il festival di Sanremo galvanizza e monopolizza l’interesse degli italiani. Polemiche, proteste e scandali non lo hanno scalfito, anzi ne hanno accresciuta la suggestione. Per una settimana in Italia non esiste nient’altro, neppure Renzi, pur impegnato in un festival assai più duro.

ASCOLTI RECORD

L’audience della Tv si impenna (anche 20 milioni) e altre trasmissioni “serie”, come “Ballarò”, si riposano. Superficialità, spettacolo, consumismo. Senza dubbio. Ma anche qualcosa che appare agli italiani più autentico del teatrino della politica. E che, se letto bene, è una periodica inchiesta sociologica sui valori degli italiani.

COME CAMBIA LA SOCIETA’

Attività commerciale, senza dubbio, canzoni non di rado scadenti, musica spesso discutibile. Ma anche il riflesso dei mutamenti accaduti nella nostra società: non si vendono dischi se non si risponde ai bisogni del mercato, se non si ascoltano le richieste e le angosce del pubblico. Ciò che Hegel, pomposamente, chiamava “Spirito del tempo” (Zeitgeist), c’è tutto anche a San Remo, palcoscenico del malessere e delle attese degli italiani.

I VALORI CANTATI

Analizzando i 36 testi delle canzoni, quali valori vi prevalgono? Di certo quasi mancano riferimenti ai problemi sociali e politici, sono pochi e sempre negativi: “La vera Italia è quella del bar; non c’è governo che tenga”. Anche il tema ecologico, un tempo così presente, è scarso: “Questa città che non serve a niente”. E la religione? Chi l’ha vista? L’unico che ne parla è il figlio d’arte Christiano De André, con tonalità di ateismo nietzschiano: “Il cielo è vuoto, è Dio che si dimentica il suo lavoro”.

UN TEMA PREVALENTE

V’è un tema prevalente e quasi ossessivo: i valori, quelli religiosi e quelli sociali, sono morti, viviamo nella solitudine e nella incertezza, i soldi sono pochi, la casa un sogno, il lavoro precario (“Ballano sulle rovine”; “Prima di andare via, sorridimi un po’ ”). Che fare? resta solo l’amore, anzi, a ben guardare, il sesso. Ecco il dominatore del festival. Raramente con tonalità esaltanti: “L’amore vive a un isolato da te”; “Siamo soli noi due, m’innamorerò di te”; “Tu irrompi e mi baci, è l’amore a possedere il bene”; “Il mio cuore è quello di un guerriero nel tuo sorriso”.

Prevale un sesso stanco e spompato. Ciò che più viene esaltato non è l’amore coniugale dei primi festival, ovviamente, né quello passionale che sconvolgeva gli ultimi. È un amore-sesso come tranquillante che conforta, come momento di sospensione del grigiore quotidiano: “Io sono qui per ascoltare un sogno”; “Voglio un’alba di pace e di sogni”; “La messa è già finita, tu ti sei rivestita”.

UN AMORE PRECARIO

Il festival, in genere, non canta l’amore che dura, ma quello che casualmente esplode dentro la precarietà e la solitudine dell’oggi. Un amore rapido, mutevole: “Il nostro è un tempo fragile, si spacca l’amore e il cielo su di noi”. È la mistica della provvisorietà: “Tu ed io in questa camera d’albergo, stiamo solo vivendo adesso, stiamo solo facendo sesso”. È lo stoicismo della disoccupazione giovanile: “E non importa se il posto non è più fisso, non è più lo stesso”.

PEDALARE SENZA META

L’amore è simile alla bicicletta, bisogna pedalare, anche senza sapere verso dove. Il viandante è diventato un errante: “L’impegno di coppia per un singolo momento: l’uomo è come una bicicletta, vai, anche se non sai perché”. L’amore offre qualche scampolo di sogni, ma viene acceso sapendo che si spegnerà presto: “Un cuore giovane come la prima volta, per una volta ancora”; “Solo un’altra canzone, poi cancellerò il tuo nome”; “Poi tutto evapora e restan le cose, polverose, poderose”. Anche la fine non produrrà odio, gli amanti si sono lasciati, ma restano amici: “Ti porto a cena con me, il tuo passato non è invitato”.

PERDITA E NOSTALGIA

Si è parlato di festival del sentimento, ma non è così. Nei testi non abbonda il sentimento, ma la sua perdita e la sua nostalgia: “Ho visto il frantumarsi d’ogni cosa, cerco lo sguardo sognante di un bambino”. I testi delle canzoni svolgono un discorso soprattutto antropologico e interpersonale (la parola più usata è “vita”). E riflettono assai bene la società che ha visto morire prima Dio, poi Marx: una società “buonista” del “riflusso”, nel senso che ha perduto la forza della contestazione, ma anche la speranza nel domani.

UN TABLET PER IL PRESENTE

Una società che si è adagiata in un narcisismo della quotidianità, tipico di chi, non sapendo più vivere, cerca almeno di sopravvivere. Anche con l’orecchio attaccato a quelle canzoni che, più delle prediche dei preti o dei fervorini del politici, disvelano la precarietà e insieme la nostalgia di una esistenza, che ha dimenticato il passato e non ha alcun cannocchiale per il futuro, ma solo un tablet per il presente: “Anche se sto bene come sto, malinconico, un po’ comico”.


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