Non accenna a placarsi la polemica rovente scatenata dalle dure obiezioni dell’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato Mauro Moretti contro la politica di tagli alle retribuzioni dei manager pubblici preannunciata da Matteo Renzi. Un tema d’attualità che va a inserirsi nel programma messo a punto dal Commissario governativo per la spending review Carlo Cottarelli. È in uno scenario così turbolento che l’esecutivo si appresta a rinnovare i vertici di grandi imprese strategiche.
Ecco l’opinione di Giorgio Ambrogioni, presidente di Federmanager, l’organizzazione che aggrega e rappresenta migliaia di dirigenti di aziende private e pubbliche.
Condivide le parole di Mauro Moretti contro il taglio delle remunerazioni dei manager di Stato?
Ritengo che la politica stia cercando di allontanare le polemiche sulla casta dei partiti per additare una nuova casta su cui riversare la rabbia popolare: il ceto manageriale. Noi non possiamo accettare uno scaricabarile demagogico e una gogna mediatica su chi guadagna di più. Esistono però livelli retributivi oggettivamente esagerati e spesso sganciati dalla responsabilità, dal rischio, dai risultati insiti nella posizione di vertice. Anche per una differenza evidente.
Quale?
Vi sono aziende che vivono sul mercato e altre che godono di un regime di monopolio. Realtà che non possono essere messe sullo stesso piano. È necessario trovare un meccanismo per cui tutti compiano lo sforzo culturale di ridurre le pretese, allo scopo di riportare le remunerazioni alle condizioni economiche del nostro Paese. Ma da qui a imporre tetti, con formule astruse nel rapporto tra stipendi dei manager e dei lavoratori dipendenti, ne corre.
Non è ragionevole fissare un limite?
Stabilire una relazione rigida schiaccerebbe verso il basso l’intera catena retributiva, e toglierebbe lo spazio per premiare merito e responsabilità. Capisco tuttavia che per determinate posizioni dirigenziali la parte fissa della retribuzione possa essere ridotta al minimo, mentre una considerevole componente variabile potrebbe venire collegata ai risultati di medio-lungo termine. Il nostro contratto collettivo nazionale di lavoro è orientato da almeno 6 anni ad agganciare gli stipendi reali agli utili di impresa.
Raffrontati ai top manager francesi, i dirigenti italiani guadagnano molto di più.
È vero solo in parte. La retribuzione media della nostra categoria è di circa 130mila euro lordi all’anno, compresa la parte variabile. Cifra equivalente a due volte lo stipendio di un quadro aziendale e a tre volte il salario di un impiegato di buon livello. Remunerazioni, bonus di uscita e pensioni d’oro coinvolgono un numero molto limitato di “mega manager” che svolgono un ruolo para-imprenditoriale. Nei loro confronti bisogna recuperare un forte senso di misura e sobrietà.
Non vi sentite privilegiati?
La grande maggioranza della classe dirigente aziendale non è egoista e auto-referenziale, come spesso viene dipinta in modo offensivo. Proviene per lo più dal ceto medio, possiede un rigoroso spirito di responsabilità sociale e un’elevata caratura etica. E rifiuta di essere assimilata a ex portaborse di politici divenuti manager per grazia ricevuta.
È giusto coinvolgere i lavoratori nel reddito aziendale legando gli stipendi del vertice a quelli della base?
Sto spingendo da tempo affinché in Italia si affermi una cultura di impresa più forte, anche tramite la partecipazione dei lavoratori agli utili. Si tratta di un grande salto culturale che deve essere incentivato.
Cosa vi aspettate dal governo alla vigilia di una stagione di nomine nelle industrie strategiche di Stato?
Ci attendiamo che vengano misurati i risultati conseguiti dai top manager delle grandi aziende. E auspichiamo, come avvenuto nel mondo politico, una forma di rinnovamento in grado di valorizzare le professionalità e le competenze presenti nelle imprese pubbliche.