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Una bomba Parmalat sulla governance italiana

L’engagement in Italia sta migliorando, cresce la partecipazione in assemblea, ma in questi giorni è accaduto un fatto che rischia di far fare dieci passi indietro alla corporate governance, abbassa il benchmark e crea un precedente pericoloso. Il 6 marzo Sofil, la società della famiglia Besnier che controlla con quasi l’85% Parmalat, ha chiesto la convocazione di un’assemblea straordinaria per approvare una serie di modifiche statutarie in tema di governance. Tra le altre cose, le modifiche potrebbero portare alla riduzione dei consiglieri indipendenti e di quelli espressione delle minoranze, i quali potrebbero ritrovarsi con un unico rappresentante in consiglio di amministrazione e vedersi così precludere la possibilità di chiedere autonomamente la convocazione di un consiglio. E’ il parere di Arturo Albano, managing partner e fondatore di Talete, società indipendente, specializzata nell’assistenza e nella consulenza in materia di corporate governance agli investitori istituzionali, azionisti di società quotate.

A che punto è l’engagement in Italia?

Ci sono stati miglioramenti, è aumentata la partecipazione degli investitori istituzionali alle assemblea grazie all’introduzione del meccanismo della record date. Questa ha consentito la partecipazione di molti fondi che, prima, per policy interna, non partecipavano a causa dell’obbligo di blocco delle azioni. Inoltre, è aumentata la partecipazione nel capitale sociale degli investitori esteri, fino ad arrivare all’esempio di Telecom Italia dove ormai i fondi rappresentano la maggioranza. Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione degli investitori istituzionali all’esercizio dei diritti riconosciuti dalla legge agli azionisti di minoranza, al fine di tutelare i propri interessi e, nel caso di fondi, quelli dei propri sottoscrittori. Purtroppo, però, troppo spesso, questo “attivismo”, soprattutto per quanto riguarda i fondi italiani, si limita alla presentazione delle liste per la nomina degli organi sociali di alcune società e all’esercizio del diritto di voto, tramite delega, solo per quelle specifiche assemblee.

Poche e da lontano, dunque.

Resta poi il problema che nella maggior parte dei casi non viene spiegato perché, su specifiche questioni, è stato espresso un voto contrario o di astensione: sarebbe sicuramente utile una partecipazione fisica con una spiegazione del loro voto, in modo da poter dare indicazioni alle società su come migliorarsi. Inoltre, tradizionalmente, senza l’input delle associazioni di categoria non c’è quasi engagement sui veri temi importanti.

Quali sono i temi più importanti?

Ce ne sono tanti, ma direi che i temi più attuali sono quello delle remunerazioni e, sempre più spesso, delle operazioni con parti correlate. Non so se è un problema solamente italiano, ma si assiste molto spesso ad azionisti di maggioranza che usano la società come se fosse una cosa propria, nonostante ci sia una piccola o grande parte del capitale in mano ad altri soggetti o investitori. In pratica, l’azionista di maggioranza tende a comportarsi come se la società fosse al 100% sua e non esistessero altri soci.

Quali esempi ci sono stati in Italia?

I casi più recenti sono quelli di Fondiaria Sai con la famiglia Ligresti e oggi Parmalat, il cui socio di maggioranza (già criticato negli ultimi due anni per aver realizzato operazioni con Parmalat ritenute dannose per gli azionisti di minoranza) ha proposto modifiche allo statuto che fanno fare dieci passi indietro alla governance, con un danno che non si limita alla sola Parmalat, ma riguarda l’intero sistema di corporate governance in Italia. Enrico Bondi aveva studiato uno statuto particolarmente tutelante delle minoranze, che, tra l’altro, prevede che la maggioranza degli amministratori sia (almeno sulla carta) indipendente. L’attuale statuto di Parmalat voluto da Bondi è il più all’avanguardia in Italia e negli ultimi dieci anni siamo sempre andati verso una maggiore trasparenza. Le proposte avanzate dall’azionista di maggioranza di Parmalat rischiano di avviare un ritorno verso opacità e annullamento del dissenso.

Può spiegare quali sono i rischi del nuovo statuto che si vuole approvare?

Lo statuto di Parmalat prevede che due amministratori possano richiedere la convocazione del consiglio di amministrazione. Con il nuovo statuto rimarrà soltanto un consigliere alle minoranze. Di fronte ad una possibile situazione in cui il board si limiterà a fare quattro riunioni l’anno per l’approvazione dei risultati finanziari, se nel frattempo il consigliere di minoranza ritiene che sia necessario discutere in consiglio temi rilevanti o sollevare le proprie perplessità non potrà più farlo. In secondo luogo, Sofil chiede che il numero degli amministratori indipendenti sia individuato sulla base delle norme vigenti (il Testo Unico della Finanza prevede che sia indipendente almeno uno dei componenti del cda o due nel caso il cda sia composto da più di sette membri). L’attuale statuto è invece più esigente e chiede che siano nominati sei amministratori indipendenti su undici. Ma a parte la situazione specifica di Parmalat, in generale, il vero rischio è che si crei un effetto emulazione: se passa il principio che l’azionista di maggioranza di una società quotata può fare quello che vuole, calpestando i diritti delle minoranze, immagino che in tante altre società l’esempio dei francesi possa essere imitato.

Come si può impedire questo passo indietro?

In aggiunta alle critiche che ci sono state da parte dei principali commentatori nazionali e internazionali e degli azionisti di minoranza, sarebbe auspicabile un intervento da parte della Consob, visto che le modifiche sono a danno degli azionisti di minoranza, in quanto il loro potere sarebbe ridotto. Sarebbe un bel segnale da parte dell’Autorità di vigilanza. Sarebbe auspicabile che proprio su questo punto venisse imposto all’azionista di maggioranza di non votare, lasciando decidere alle minoranze, applicando il meccanismo del “whitewash” (voto decisivo dei soci non di controllo, ndr).

Quali sono possibili casi futuri?

Negli ultimi mesi si è molto parlato di Telecom Italia e del potenziale conflitto in interessi in cui versa l’azionista di riferimento Telefonica, soprattutto per quanto riguarda l’ipotesi di vendita di Tim Brasil. Il tema del conflitto di interessi credo che non possa essere valutato soltanto dall’esito finale della decisione in sé, ma vada guardato nel suo complesso, prendendo in considerazione l’intero procedimento alla base della decisione. Dipende dalla logica della decisione, da come essa matura. Il processo di decisione deve avvenire in modo trasparente e condiviso e per questo è fondamentale il ruolo di controllo da parte degli amministratori indipendenti e in particolare da quelli eletti dagli azionisti di minoranza. Telecom Italia potrebbe anche essere un caso positivo, gli investitori istituzionali (quasi al 4% quelli italiani, oltre il 51% quelli esteri, ndr) potrebbero avere un ruolo decisivo nella governance della società. Il socio di minoranza Findim che fa capo a Marco Fossati ha richiesto di integrare all’ordine del giorno dell’assemblea degli azionisti ordinari, convocata per il 16 aprile, il tema della nomina del prossimo presidente da parte dell’assemblea stessa.

Quali esempi di governance positivi ci sono stati in Italia?

Italcementi, che ha annunciato l’Opa finalizzata al delisting di Ciments Francais dalla Borsa di Parigi e la conversione delle azioni di risparmio Italcementi in azioni ordinarie, una cosa che da tanti anni era richiesta dagli azionisti di minoranza. Il vecchio capitalismo italiano dà segnali positivi e dimostra di seguire il trend verso un miglioramento della corporate governance nel nostro Paese. Alla luce di questo cambiamento del capitalismo italiano, che mette da parte i “salotti buoni” e sembra maggiormente disposto al dialogo con il mercato, appare ancor più inaccettabile quello che invece Lactalis intende fare in Parmalat.

Quali altri temi saranno caldi nella imminente stagione assembleare?

Altro tema importante è quello della remunerazione. Il nocciolo è la mancanza di trasparenza. Bisogna rendere chiari quali parametri e target sono presi come riferimento per calcolare i bonus, che sono il nodo fondamentale.

In quale modo si potrebbe migliorare la corporate governance?

Premesso il fatto che credo che la legislazione sia all’avanguardia, perché ad esempio l’Italia è l’unico Paese in cui esiste il voto di lista e gli azionisti di minoranza hanno a disposizione numerosi strumenti per tutelare i propri interessi (come la possibilità di convocare l’assemblea, di aggiungere punti all’ordine del giorno, di fare domande al management sia prima sia durante l’assemblea, la possibilità di denunciare fatti censurabili al collegio sindacale e di proporre l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori), auspico che venga introdotto un obbligo per gli investitori istituzionali di partecipare e di votare alle assemblee, al fine di allineare all’interesse di tutti gli azionisti l’operato degli amministratori. In alcuni Paesi esteri di tradizione anglosassone questo obbligo esiste. Certo, tutto poi dipende da come questi diritti vengono esercitati…

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