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Il vero decreto “Salva Roma” è “La grande bellezza”

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

Vincere un Oscar non significa sempre, per un film, essere un capolavoro. Ma sempre, almeno, un’opera ben condotta e di sicuro mestiere. Come è La grande bellezza, appena premiato con l’Oscar per il migliore film straniero. Di certo originale e affascinante, nel solco aperto da un padre nobile, riconosciuto dal regista, il Fellini de La dolce vita (1960): il giornalista colto Servillo-Jep Gambardella è la reincarnazione di Marcello Mastroianni-Rubini. Ma ne è anche molto diverso. La stessa noia, lo stesso spleen, la stessa nonchalance, in Fellini erano gravidi di pietas per la miseria dei personaggi e dell’attesa di una rivelazione dentro il vuoto esistenziale. In Sorrentino vengono superati in un estetismo gelido, vissuto senza angoscia: «Le vedi queste persone, questa fauna? Questa è la mia vita: il nulla».

LA CULTURA DEL VUOTO E DEL RELATIVISMO

Nel quasi mezzo secolo che separa i due film i valori forti della tradizione, mostrati in incipiente crisi ne La dolce vita, ma ancora presenti nelle masse, si sono afflosciati ed estinti. In una cultura del vuoto e del relativismo, così bene espressa dal regista-sceneggiatore e dagli attori: «Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po’ in giro». Col conforto del bello, che ancora esiste, soprattutto nella Roma indimenticabile, seducente e stupefacente, che è la più grande interprete del film. Il vero decreto «Salva Roma» è La grande bellezza.

La verità? È solo apparenza e finzione. Il bene? Relatività e utile soggettivo. La politica? Astuzia e ruberia, nel film manca del tutto. La vita è frammentaria, indifferente, priva di senso. Il tutto detto senza moralismi, anzi incarnato dalle immagini, che traducono con rara sincerità il dramma dei personaggi. Che sono sempre «negativi», come quelli dei precedenti film: il cantante e il calciatore ne L’uomo in più (2001), per i quali «la vita è ‘na strunzata»; il mafioso riciclatore Titta ne Le conseguenze dell’amore (2004); l’usuraio Geremia ne L’amico di famiglia (2006); l’indecifrabile belzebù Andreotti ne Il divo (2008). Ma ora c’è qualcosa in più: per fortuna c’è la bellezza, che ci consente ancora di vivere.

IL MESSAGGIO DEL FILM

Il messaggio lanciato da Sorrentino è insieme una fenomenologia della società attuale e dei suoi interrogativi, quelle grandi domande sul senso della vita, che rimangono oggi senza risposta. L’Occidente ha creduto prima nella filosofia greca (il «vero»), poi nella religione cristiana (il «sacro»), che quella filosofia aveva assimilato, infine ha privilegiato il «buono», la morale laica come rispetto della persona (Kant). Tre grandi «favole» (Lyotard), oggi largamente dimenticate.

COSA RESTA DELL’ITALIA

Che più ci resta? Solo l’arte, come hanno capito, nella filosofia, Nietzsche («L’arte ci salva dal morire di verità») e Heidegger («La parola è l’evento del Sacro»)? E come è divenuto costume diffuso in quella Estéthisation du monde, che Lipovetsky ci ha così bene descritto. L’homo sapiens si è fatto homo aestheticus – compra, consuma e getta, ma vuole «oggetti d’arte», sui quali riversare la sua emozione immediata, rapida e sostituibile. Una società, come la nostra, dello spettacolo e del divertimento, non può che privilegiare la dimensione la bellezza. Ecco perché vi esplode il turismo estetico, che fa ammirare (e soprattutto fotografare) incomparabili spettacoli naturali o guida alla fruizione di opere d’arte uniche e irripetibili. La panestetizzazione del mondo impone che l’industria, degli oggetti e dei simboli, offra sempre il bello o almeno il presunto tale.

QUALE ALBA

l film di Sorrentino si chiude con l’immagine di Servillo, ormai pacato, seduto sui gradini, in una Roma all’alba. Anche se il film, più che dell’alba, è del tramonto. Ma quale tramonto? Quell’ «Untergang» dell’Occidente indicato allusivamente da Nietzsche e Spengler? o quel recupero estetizzante della parola salvifica, che consente all’uomo, insieme, di poetare, pensare e ringraziare (Heidegger: dichten, denken, danken)? Non toccava ad un regista rispondere.

RESTA SOLO IL BELLO

Il suo film è una convincente descrizione dell’uomo d’oggi, del suo vuoto di valori, di una società ormai estranea, di una insuperabile incomunicabilità fra le persone. Una società nichilista, che ha consumato tutti i valori tranne uno: il bello. Anche se pochi lo vivono come Rilke: «il bello è solo l’inizio del tremendo». La maggioranza lo accetta ed accoglie in quelle forme consumistiche, che l’industria materiale e culturale produce per le masse: qualcosa di mezzo tra il «mi piace» e il «mi sono divertito».

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