Se c’è una cosa urticante è sentir parlare di quote rosa. Ma cosa dovrebbero rappresentare? Il fatto che viviamo in un paese maschilista non vuol dire che debba essere riservato uno spazio minimo alle donne. Le donne non sono una categoria protetta, non sono di certo impedite (si prenda il termine in senso letterale) e risulta persino fastidioso pensare che famiglia e figli possano essere un fattore invalidante che le designa a pretendenti di fatto a posti di lavoro.
È innegabile –sia chiaro- che le donne siano la metà dell’universo che vada più tutelata, ma non è con le quote rosa che si segue la via giusta. Non è con la contrapposizione dei colori rosa/azzurro che si raggiunge la parità.
La parità si raggiunge colmando i vuoti. Costruendo asili all’interno delle aziende e di qualsiasi altro posto di lavoro, con sostegni economici concreti alle madri senza reddito. La parità va raggiunta con la cultura della parità e non con la dittatura delle distinzioni, che non fa altro che aumentare la discriminazione.
E poi –altra cosa che non regge quando si parla di quote rosa- è il fatto che si riduca il discorso lavorativo di rappresentanza ad una questione di mero sesso e non di meritocrazia. E non regge nemmeno adesso con il governo Renzi, che di donne dalla meritocrazia discutibile ne ha almeno un paio.
Il mio non passi come un discorso maschilista (so che qualcuno non lo capirà), perché è tutt’altro. Forse è un po’ utopistico pensare che si possa raggiungere la parità evitando mezzucci di ghettizzazione, ma credo che questa possa realizzarsi solo con la vera presa di coscienza dell’altra metà (i maschi) che stare da soli al comando significa rimanere sempre e comunque una minoranza che non saprà cambiare il mondo.