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Francesco, il Papa diplomatico

Nei giorni della Sede vacante, al riparo da microfoni e sguardi indiscreti, qualche anziano porporato escluso dal novero degli elettori per ragioni mera­mente anagrafiche, lo diceva: si cerca un candidato non europeo. Sì certo, pri­ma di tutto non curiale e non italiano, dal momento che l’eco degli scandali e degli scossoni che avevano indebolito il pontificato ratzingeriano era ancora ben forte e – a torto o ragione – addebitato proprio alla pattuglia italiana così forte nei Sacri palazzi. Però lo sguardo degli elettori andava ben aldilà delle battaglie tra corvi e maggiordomi infedeli. Ci voleva qualcosa di nuovo che ponesse anche Roma in sintonia con le mutate condizioni della Chiesa nel mondo. Magari, guardando proprio all’America latina, dove vive il 40% dei cattolici nel mondo. Nel 2005, poche settimane dopo il Conclave che elesse Joseph Ratzinger alla cattedra di Pietro, il cardinale belga Godfried Daneels disse che quella scelta aveva dimostrato che la Chiesa “non era pronta per un papa latinoamericano”. Otto anni dopo, quel momento sarebbe arrivato.

LA PRIMA APPARIZIONE

Fin dalla prima apparizione sulla Loggia delle benedizioni, Francesco ha posto l’accento sul suo essere “preso quasi alla fine del mondo” e già dalle prime omelie ha fissato in capo alla propria agenda il tema delle periferie geogra­fiche, culturali, sociali ed esistenziali. Uscire, andare lontano, non chiudersi nelle sagrestie o nelle canoniche. Non c’è in questo solamente la vocazione gesuita della missionarietà, quanto la consapevolezza che è necessario coin­volgere maggiormente le regioni dove è oggi più forte la presenza cattolica. E questo senza spostare il baricentro della cattolicità, che non può che essere a Roma.

FRANCESCO VS BENEDETTO

Francesco non è uomo che viene dalla diplomazia, proprio come non era diplomatico Benedetto xvi. A differenza del teologo tedesco, però, fin da subito Bergoglio ha scelto di sterzare rispetto alla strada intrapresa dal prede­cessore. Se Ratzinger, infatti, aveva preferito puntare sul canonista salesiano Tarcisio Bertone come segretario di Stato, affidando a quest’ultimo tutta la gestione della macchina governativa e diminuendo il peso della scuola diplo­matica della Santa sede, Bergoglio ha fatto l’opposto.

LA NOMINA DI PAROLIN

Già pochi giorni dopo l’elezione, ha rivelato qualche mese fa il cardinale Oscar Rodríguez Mara­diaga, il papa aveva scelto il nuovo segretario di Stato nella persona di Pietro Parolin, la cui nomina sarebbe stata ufficializzata alcuni mesi dopo, a fine agosto. Parolin, nunzio in Venezuela, già sottosegretario per i Rapporti con gli Stati, è un grande esperto dei problemi asiatici. A lui si deve la trattazione dei dossier con Vietnam e Cina, Paesi dove si è recato più volte prima di essere promosso arcivescovo e di essere trasferito a Caracas nel 2009. Con­siderato uno dei migliori elementi della diplomazia vaticana, Parolin è chia­mato a ripensare la presenza della Chiesa nelle aree più “calde” del pianeta. Un’attenzione al mondo della diplomazia confermata anche dalla nomina di Lorenzo Baldisseri, già nunzio in Brasile durante la fondamentale v Confe­renza dell’episcopato latinoamericano di Aparecida (maggio 2007), alla guida della segreteria generale del Sinodo dei vescovi. Ad Aparecida, il cardinale Bergoglio fu chiamato a presiedere il comitato estensore del Documento fi­nale della conferenza, testo ripreso a mo’ di agenda in questo primo scorcio di pontificato. E un diplomatico, Beniamino Stella, è stato lo scorso settembre trasferito dalla presidenza della Pontificia accademia ecclesiastica alla guida della Congregazione per il clero. Un riposizionamento della Chiesa sulla sce­na internazionale che si è ben visto sul finire dell’estate scorsa.

PER LA PACE IN SIRIA

Non era ancora in carica, il segretario di Stato, ma la svolta si era già vista a settembre, quando il papa organizzò una veglia di preghiera – con digiuno annesso – per la pace in Siria. Mentre tutto sembrava ormai portare allo scop­pio del conflitto, con i caccia di Parigi e Washington già in fase di rullaggio, Francesco interveniva di persona dalla finestra dello studio del Palazzo apo­stolico: “Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma (…) di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negozia­to, superando la cieca contrapposizione. Con altrettanta forza esortò anche la Comunità internazionale a fare ogni sforzo per promuovere, senza ulteriore indugio, iniziative chiare per la pace in quella nazione, basate sul dialogo e sul negoziato, per il bene dell’intera popolazione siriana. Non sia risparmiato alcuno sforzo per garantire assistenza umanitaria a chi è colpito da questo terribile conflitto, in particolare agli sfollati nel Paese e ai numerosi profughi nei Paesi vicini. Agli operatori umanitari, impegnati ad alleviare le sofferenze della popolazione, sia assicurata la possibilità di prestare il necessario aiuto”, diceva Bergoglio il 1° settembre. E la veglia del 7 settembre diede i frutti spe­rati, confermando che la Chiesa era tornata a giocare la propria partita nell’a­gone diplomatico. Frequenti furono, in quei giorni, i contatti telefonici tra Roma e la nunziatura di Damasco e tra Roma e la rappresentanza alle Nazioni unite a Ginevra. Non meno rilevante fu poi la lunga lettera, accompagnata da benedizione finale, che il papa scrisse a Vladimir Putin in qualità di presiden­te del G20. Un messaggio che avrebbe molto colpito il leader russo, al punto da farne il perno principale della conversazione tenuta tra i due lo scorso novembre in Vaticano. È questo che Francesco chiede a Parolin, che con ogni probabilità in futuro sarà chiamato a guidare una segreteria di Stato non più centro del potere interno, ma proiettata sullo scacchiere internazionale. Una sorta di grande ministero degli Esteri sempre attivo e presente capillarmente nelle aree di crisi.

LA VISITA A LAMPEDUSA

Un paio di mesi prima della veglia per la pace in Siria e nel Medio Orien­te, il papa si era recato – a sorpresa – a Lampedusa. Erano i giorni dei naufragi dei profughi salpati dall’Africa settentrionale, e Francesco decise di compiere proprio lì il suo primo viaggio fuori Roma. In quella scelta c’è di più della vo­lontà di portare conforto alle popolazioni locali e ai disperati in arrivo. Come notava Andrea Riccardi sul Corriere della Sera del 7 luglio, “Francesco getta il suo sguardo verso il grande sud. Le miserie, le guerre, il fondamentalismo, ma anche la contraddizione tra grandi ricchezze e povertà”. Ancora, “questo pellegrinaggio del papa è un gesto che colloca la Chiesa di Roma, sensibile e misericordiosa, su una delle più complicate e mobili frontiere del mondo. La coscienza europea può cogliere un importante segnale da questo breve spostamento che, simbolicamente, è quasi il primo viaggio internazionale di papa Bergoglio”.

IL VIAGGIO IN ASIA

Che l’attenzione sia rivolta alle più complicate frontiere del mondo lo dimostra anche il proposito di recarsi entro quest’anno in Asia, l’unico con­tinente non toccato da Benedetto xvi nei suoi quasi otto anni di pontificato, Vicino oriente escluso. Un particolare, questo, sottolineato in più d’una oc­casione da Francesco, deciso a porre presto rimedio a tale mancanza. La Sala stampa vaticana ha già fatto sapere che è allo studio l’ipotesi di un viaggio in Corea del Sud il prossimo agosto, e il presidente del Pontificio consiglio Cor Unum, il cardinale Robert Sarah, ha aggiunto che è volontà del papa fare tappa anche nelle Filippine per portare il proprio conforto alle popolazioni colpite dal tifone Yolanda. Dopotutto, è l’Asia il nuovo “continente della speranza”, dove le potenzialità per la crescita del cattolicesimo sono enormi, nonostante difficoltà sociali, culturali e politiche. Il numero dei fedeli alla Chiesa di Roma è ancora esiguo, ma dati confortanti e in controtendenza non mancano. Basti pensare al sempre maggiore radicamento cattolico in Corea del Sud, Paese non a caso visitato nei mesi scorsi dal prefetto della congre­gazione per l’evangelizzazione dei popoli, l’ex Propaganda fide, il cardinale Fernando Filoni. E non è un caso neppure che tra i primi cardinali creati da Francesco il 22 febbraio, ci sia stato anche l’arcivescovo di Seoul, monsignor Andrew Yeom Soo jun.

I PROBLEMI DAL NORD

Se i semi piantati da Francesco nel sud del mondo daranno con ogni pro­babilità i frutti sperati, i problemi per il papa argentino arriveranno dal nord. Gli Stati Uniti, in particolare, rischiano di rappresentare lo scoglio maggiore per l’agenda di Francesco. Per farsene un’idea anche superficiale e sommaria, è sufficiente rileggere le critiche – in qualche caso anche molto dure – che parte del mondo conservatore ha pubblicamente rivolto al pontefice in occasione della pubblicazione dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: si potrebbe dire che l’aggettivo più gentile usato per definire Bergoglio è stato “marxista”. Lo storico Massimo Faggioli, docente di Storia del cristianesimo all’Univer­sity of St Thomas, scriveva lo scorso ottobre che “la chiesa degli Stati Uniti è altamente polarizzata e divisa al suo interno”, per il fatto che essa “vive a stret­to contatto con un ambiente democratico, e in particolare in una democrazia che non è consensuale come le democrazie europee basate su alleanze multi-partitiche, ma è una democrazia concorrenziale, cioè con due partiti politici alternativi. In questo contesto democratico-competitivo, la Chiesa cattolica ha assorbito alcuni di questi meccanismi al suo interno, anche per quanto riguarda l’ethos della partecipazione nella Chiesa”. È quasi automatico, dun­que, che “la partecipazione nella chiesa degli Stati Uniti sia guidata spesso da visioni competitive, alternative, più che da istinti consensuali”.  Ciò spiega in modo chiaro perché i cosiddetti “valori non negoziabili siano diventati così importanti per il cattolicesimo americano: non solo a causa del proverbiale puritanesimo degli americani (anche cattolici), ma anche a causa della cultura politica americana. L’ethos democratico è diventato parte della cultura della Chiesa, ma nella chiesa degli Stati Uniti questo ha creato più concorrenza che consenso”.

L’INSOFFERENZA AMERICANA VERSO FRANCESCO

Già a partire dalla scorsa estate, nelle dichiarazioni pubbliche di qual­che alto rappresentante delle gerarchie cattoliche statunitensi si scorgevano i barlumi di un’insofferenza verso il nuovo corso impresso da papa Francesco. L’arcivescovo di Philadelphia, il conservatore cappuccino Charles Chaput, contestava i silenzi di Bergoglio su aborto, nozze omosessuali e contraccezio­ne, mentre l’allora capo della conferenza episcopale, il cardinale di New York Timothy Dolan, lamentava una certa lentezza nel sostituire i perni del gover­no ratzingeriano accusati di aver mal gestito la macchina curiale negli ultimi anni. Dolan ricordava che il Conclave aveva eletto non solo un pastore: “Noi volevamo anche qualcuno con buone capacità manageriali e di leadership, e fino ad oggi questo si è visto poco”.

LE RESISTENZE MAGGIORI

Ma è sul cambiamento d’agenda, con Francesco che poneva l’attenzione più su povertà e misericordia che sulla triade non negoziabile che dall’Ameri­ca sono giunte le resistenze maggiori. In due occasioni, il cardinale Raymond Leo Burke, prefetto del Supremo tribunale della segnatura apostolica, chie­deva che la Chiesa si rimettesse in moto per ribadire con forza la necessità di difendere la vita dal suo concepimento alla fine naturale. Conversando con un mensile cattolico di Minneapolis, il Catholic Servant, Burke denunciava i pericoli della “cultura di morte” che è “contro la vita e contro la famiglia” e “che esiste da tempo”. E la responsabilità prima di tale disastro, aggiungeva l’alto prelato, è tutta dei cattolici: “Non abbiamo adeguatamente combattu­to perché non ci è stata insegnata la nostra fede cattolica, soprattutto nella profondità necessaria per affrontare questi gravi mali del nostro tempo. È un fallimento della catechesi”. C’è difficoltà a sintonizzarsi sulle frequenze impostate da Francesco, per il quale l’approccio in difesa della vita deve essere diverso da quello usato negli ultimi anni: meno baionette issate sui pulpiti, smetterla di ossessionare i fedeli con la trasmissione disarticolata di dottrine, basta parlare sempre delle stesse cose. Anche perché “la posizione della Chiesa è nota”.

L’ELEZIONE DI JOSEPH KURTZ

Una linea diametralmente opposta a quella seguita dai vescovi ame­ricani, fronte avanzato dell’ecclesia militans giovanpaolina la cui battaglia è successivamente proseguita con la guida razionale di Benedetto xvi. Lo scorso novembre, quando l’episcopato statunitense elesse monsignor Joseph Kurtz come nuovo numero uno al posto del cardinale Dolan, si disse che la scelta andava in direzione di una migliore comprensione delle richieste avanzate da papa Francesco. Kurtz, dopotutto, ha il profilo di un conservatore moderato ritenuto più flessibile rispetto al predecessore. Un’elezione che aveva anche fatto sorridere Barack Obama, desideroso di svoltare dopo la contrapposi­zione netta e rumorosa avuta con l’arcivescovo di New York sui princìpi non negoziabili e la riforma sanitaria.

L’ILLUSIONE DELLA PACE TRA TRA CASA BIANCA ED EPISCOPATO

Obama che, tra l’altro, ha sposato la causa in difesa dei poveri portata avanti da Francesco, se è vero che a tal proposito ha ordinato a un proprio collaboratore di copiare un’intera frase pronunciata dal pontefice e di richiamarla in un proprio discorso. Episodio che ha riportato alla mente l’immagine della cosiddetta Santa alleanza che venne a stipularsi tra Giovanni Paolo ii e Ronald Reagan negli anni Ottanta, con l’obiettivo comune di contrastare e abbattere il comunismo. È tuttavia bastato aspettare qualche settimana perché l’illusione di una “pacificazione” tra Casa Bianca ed episcopato lasciasse posto alla realtà: in una lettera inviata a fine anno a Obama, monsignor Kurtz accusava la presidenza di mettere a repentaglio la libertà religiosa. Nulla, quindi, è mutato rispetto alla gestione precedente. Tra i vescovi e Stato federale la distanza è ancora profonda. Per capire se tale di­stanza è notevole anche tra i vescovi d’America e il papa, bisognerà attendere l’ormai imminente udienza che Francesco concederà a Barack Obama a fine marzo. Anche se il comunicato sarà, come da prassi, improntato a segnalare “il clima cordiale”, spesso qualche foto parla molto di più delle note ufficiali. Basta guardare, anche velocemente, quelle del recente incontro tra Bergoglio e il capo di Stato francese François Hollande in Vaticano per cogliere quanto forte fosse l’imbarazzo.

Articolo contenuto nell’allegato del numero di marzo della rivista Formiche dal titolo “E venne Francesco”.



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