Un mondo in cui l’economia reale si è impoverita e la finanza si è arricchita. E nel quale soltanto l’Unione Europea ha risposto alla crisi del 2008 con ricette inflessibili di austerità. Aggravando così una stagnazione produttiva che vede la politica comunitaria incerta, divisa, impotente.
È il panorama delineato nel Rapporto “Sinossi 2013 – Economia e Mercati finanziari” elaborato da Teleborsa, agenzia di stampa fornitrice di servizi in rete per società quotate. La relazione, presentata a Roma a Palazzo Altieri con il contributo del Banco Popolare, ha rappresentato l’occasione per un’approfondita discussione tra studiosi sulle cause profonde della contrazione produttiva del Vecchio Continente e sulle ricette per rompere la spirale recessiva.
Nel 2013, ha spiega il manager ed editorialista Guido Salerno Aletta, si è riequilibrato l’assetto globale nelle bilance dei pagamenti. Ma mentre in Cina e negli Usa tutto ciò è avvenuto in una cornice di crescita in cui il debito pubblico viene diluito, in Europa e in Italia l’equilibrio è stato pagato riducendo l’import e provocando una violenta riduzione del PIL. Pertanto il rischio è che il debito sovrano cresca a fronte del calo progressivo del reddito divenendo sempre meno tollerabile.
La difficile impresa di tagliare la spesa pubblica
La radicale divergenza nelle strategie economiche intraprese da UE e resto del pianeta è stato il filo conduttore del ragionamento di Andrea Monorchio, per 13 anni Ragioniere generale dello Stato e attualmente alla guida della Concessionaria dei servizi assicurativi pubblici (Consap). Mentre gli Usa e il Giappone hanno promosso un’immissione di notevole liquidità per stimolare domanda e consumi interni grazie a banche centrali dotate di effettivi poteri, il Vecchio Continente dominato dal Fiscal Compact presenta un panorama problematico.
Soprattutto nel nostro Paese, in cui la finanza pubblica, equivalente a oltre il 50 per cento del Prodotto interno lordo, gioca un ruolo cruciale sulle prospettive di sviluppo. Il governo Monti, ha ricordato Monorchio, ha puntato sull’avanzo primario per ridurre il passivo di bilancio. Ma non è riuscito né a favorire la ripresa né a diminuire il debito, aumentato a causa del calo del denominatore: il PIL, rimasto fermo ai livelli del 2000. “Mantenere inalterato in tale scenario un rapporto del 3 per cento tra deficit e PIL ha significato ‘togliere la pelle’ agli italiani in termini di pressione fiscale e taglio dei servizi sociali”.
Nessuno, ha rimarcato l’ex Ragioniere dello Stato, ha preso in considerazione l’idea di abbattere il passivo dei conti pubblici movimentando il patrimonio pubblico. A suo giudizio è questa la strada da intraprendere, visto che non è facile ridurre i costi complessivi delle pubbliche amministrazioni di ogni livello, equivalenti nel 2012 a 800 miliardi di cui 132 destinati all’acquisto di beni e servizi. Basti pensare che l’ipotesi avanzata da Francesco Giavazzi di tagliare di 10 miliardi i trasferimenti alle imprese è rimasta sulla carta. La stessa promessa fatta da Matteo Renzi di tagliare del 10 per cento il cuneo fiscale richiede un’azione incisiva molto ardua. Più ragionevole per lo studioso elevare gli stipendi del 10 per cento senza imporre tasse e contributi aggiuntivi.
Le ragioni remote della crisi europea
Molto più radicale la lettura fornita da Giuseppe Guarino, professore emerito di Diritto pubblico e amministrativo all’Università “La Sapienza”. Per anni, ha osservato il giurista, il nostro Paese e la sua economia sono cresciuti a un ritmo e con profitti superiori al tasso di indebitamento. Il costo totale del passivo di bilancio italiano è pari nel 2013 al 5,5 per cento del PIL, a fronte di un avanzo primario del 2,5. La cifra totale è quindi del 3 per cento. Un ritmo di sviluppo del 3 per cento è impensabile oggi, mentre tra il 1950 e il 1991 toccava in media il 4,5. Ecco perché si rischia di raggiungere il punto di non ritorno, con un’impennata del rapporto debito-PIL al 136 per cento il prossimo anno. Adesso, peraltro, viviamo in un regime finanziario vincolante che abbiamo accettato con il Patto di stabilità. E non possiamo indebitarci ulteriormente. La priorità è puntare su uno sviluppo sano, mancato del tutto dal 2000 ad oggi.
La stagnazione produttiva, ha precisato lo studioso, non è però un fatto solo italiano. Riguarda l’intera Euro-zona. La ragione del fenomeno è ai suoi occhi semplice quanto dirompente: “Il 1 gennaio 1999 le carte in tavola sono state cambiate. Il Trattato di Maastricht fortemente voluto da Jacques Delors e Guido Carli e imperniato sul primato dello sviluppo armonioso fu sostituito con il Regolamento comunitario 1466 del 1997 basato sul dogma intoccabile del cambio fisso, dei conti in ordine e del pareggio di bilancio”.
L’autentica moneta unica, in altre parole, è stata falsata prima di entrare in vigore. Ed è entrata in circolazione una valuta falsa con lo stesso nome, avente come obiettivo prioritario la stabilità a breve termine dei bilanci per tutti gli Stati. Pena le durissime sanzioni inflitte dall’esecutivo comunitario. Il giurista parla di “delitto contro l’umanità e trapianto indiscriminato imposto a realtà con profonde asimmetrie economico-sociali, che ha prodotto effetti devastanti”. Tra cui il crollo del 20 per cento degli acquisti europei nel mercato Usa, che rischia di provocare danni enormi sull’economia nordamericana e planetaria.
Le ripercussioni sulla realtà creditizia
È alla luce di questa diagnosi che Giovanni Sabatini, direttore generale dell’Associazione bancaria italiana (Abi), ha invocato il recupero dello spirito dl progetto originario di unificazione europea. Percorso del quale “la valuta unica era soltanto un tassello e che fu interrotto con la bocciatura della Costituzione UE”. Ai suoi occhi il Vecchio Continente ha maturato in ritardo in ritardo la consapevolezza che un assetto finanziario integrato abbia necessità di una vigilanza e supervisione prudenziale unitaria attribuita alla BCE. Per comprenderlo, spiega, i governi dell’Euro-zona hanno dovuto stanziare enormi risorse per salvare gli istituti creditizi coinvolti nella crisi con ricadute pesanti sui debiti sovrani.
È stata posta così la premessa per l’Unione bancaria. Costruzione che poggia però su un’altra gamba essenziale: il meccanismo e il fondo unico di risoluzione delle crisi creditizie con risorse delle banche anziché della collettività. Passo che implica da parte di tutti gli Stati aderenti l’assunzione del rischio di gestione comune delle perdite. Scenario finora respinto da Berlino.
Fare come l’Italia post-unitaria
Un richiamo ricco di suggestione per riflettere sulle vie di uscita dalle secche della recessione è suggerito da Antonio Rinaldi, professore di Finanza aziendale nell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Pescara e docente di Mercati finanziari e Commercio internazionale presso la Link Campus University di Roma. Critico sferzante dell’architettura monetaria europea, lo studioso punta il dito contro “la mutazione subdola subita dalla valuta unica rispetto alla missione originaria di porre la finanza al servizio dell’economia reale”. Per cui l’euro è stato introdotto in assenza di un’adeguata e genuina integrazione politica, giuridica, fiscale e amministrativa.
Percorso contrario, rileva Rinaldi, a quello promosso con l’Unità d’Italia oltre 150 anni fa. Quando la classe dirigente nazionale realizzò la fusione dei debiti sovrani degli Stati pre-unitari, che vennero lasciati in vigore e riconvertiti in lire con la garanzia dalle nuove istituzioni. Guardando al precedente storico l’economista si chiede perché nessuno, nella fase iniziale dell’euro, abbia pensato a un Eurobond su larga scala per mettere in comune almeno la parte di debito sovrano che rientrava nel 60 per cento del rapporto con il PIL. E perché “il ruolo di prestatore di ultima istanza sia stato assegnato a cittadini e imprese attraverso la fiscalità”.