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Irap o Irpef? Manualetto per un utile taglio fiscale

Giorgio Squinzi meriterebbe proprio di restare a bocca asciutta nell’operazione-cuneo annunciata da tempo dal premier Matteo Renzi ed ormai prossima a concretizzarsi.

IL RUOLO DELLA CONFEDERAZIONE DEGLI INDUSTRIALI

La Confindustria ha contrastato e criticato il governo Letta come mai prima d’ora aveva fatto nei confronti di un esecutivo in carica; ne ha sollecitato il ricambio e ha fatto un’inconsueta apertura di credito nei confronti delle promesse del premier all’atto della fiducia benché si trattasse di impegni ancora troppo generici per andare oltre il novero delle buone intenzioni (che, di solito, in politica non vengono prese in considerazione).

I TAGLI PRIVI DI SENSO

Adesso, nel momento in cui si passa alle prime decisioni, il governo si interroga su dove allocare quei dieci miliardi messi a riduzione del costo del lavoro (di cui, per altro, è ancora imprecisata la copertura). Addirittura, sembrerebbe prevalere l’idea di puntare sull’Irpef ovvero su di una minore tassazione dei redditi più bassi (fino a 25mila euro lordi all’anno) allo scopo di incrementare le magre buste paga con un bonus fiscale di 80-100 euro mensili. Intento sicuramente lodevole, ma del tutto privo di senso rispetto all’esigenza conclamata di ridurre il costo del lavoro per consentire una maggiore competitività del nostro apparato produttivo. Sembra ovvio ritenere, infatti, che la riduzione vada a favore di chi quel costo lo sopporta e lo include nei prodotti finiti. E’ questa l’indicazione che proviene dalla Ue e da tutti gli osservatori internazionali.

IRAP E SANITA’

E, a tal proposito, si è anche individuata nell’Irap l’imposta su cui intervenire: un’imposta che serve al finanziamento della sanità, il cui minor gettito sarebbe più agevole sostituire nell’ambito del concorso dello Stato al Fondo sanitario nazionale, piuttosto che infilarsi nella difficile operazione del taglio delle aliquote previdenziali e relativa fiscalizzazione dei contributi sociali, a cui dovrebbe fare seguito un ampio riconoscimento di contribuzione figurativa.

IRPEF PROPAGANDISTICA

Diciamoci la verità: se il governo dovesse scegliere la strada dell’Irpef (poi un’operazione siffatta potrebbe riguardare soltanto il lavoro dipendente?) si tratterebbe di una mossa propagandistica con chiare finalità elettorali (nel 1960 il governo Tambroni esordì riducendo il prezzo della benzina). E non si venga a dire che le maggiori disponibilità in busta paga per una parte del mondo del lavoro aiuterebbero la ripresa del mercato interno. Potrà anche essere vero in parte. Ma un aiuto ben più consistente e stabile arriverebbe da una ripresa più diffusa dell’apparato produttivo, grazie ad una ritrovata maggiore competitività derivante da una riduzione dei costi.

LA VERA SCOSSA

Se la macchine automatiche tornassero a girare si ridurrebbe il numero dei lavoratori in cig e magari vi sarebbero anche nuove assunzioni in conseguenza delle misure annunciate nel Jobs act. Volendo destinare una quota dei dieci miliardi al fronte del lavoro, sarebbe utile rafforzare le risorse destinate alla detassazione delle forme di retribuzione finalizzate a conseguire una maggiore produttività e qualità del lavoro, agendo sia sul piano dei requisiti per accedervi, sia su quello delle motivazioni (includendovi gli accordi a favore della conciliazione in vista di una maggiore occupazione femminile), sia, infine, su quello delle disponibilità finanziarie.

COME RENDERE COMPETITIVE LE IMPRESE

Sarebbe questa una linea di politica salariale del tutto coerente con l’esigenza di rendere più competitive le nostre imprese attraverso una riduzione del costo del lavoro. Nei giorni scorsi mi sono trovato a conversare con un manager di una importante multinazionale italiana che ha stabilimenti in Veneto, in California, in Brasile e in Cina. Se è scontata la differenza esistente – con riguardo al costo del lavoro – tra i lavoratori italiani e quelli brasiliani e soprattutto cinesi, qualche sorpresa può destare lo scoprire che un’ora di lavoro di un operaio californiano costa (13 euro) esattamente la metà di quella (26 euro) di un collega veneto.


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