Inutile negare che, visto lo stallo e la mollezza del centrodestra, insieme a Beppe Grillo il presidente del Consiglio Matteo Renzi pare essere l’unico a fare politica. Ieri ha messo insieme un’altra serie di frecce che hanno impallinato sindacati e alti burocrati segnando l’ennesimo capolavoro di comunicazione politica.
Il fiorentino armato di fiuto e calcolatrice ha sparato su due organizzazioni svuotate e vetuste nella governance come CGIL e Confindustria. La strana coppia che difende i privilegi delle proprie categorie penalizzando le famiglie italiane – secondo la vulgata renziana stile Foglio di Giuliano Ferrara – un club di grandi industriali e sindacalisti che ha parecchio da farsi perdonare in termini occupazionali e questo gli elettori lo sanno bene.
Allora, senza paura, il premier fa pentole e coperchi, costruisce il renzismo come arte di parlare alle persone, alle piccole comunità, alle famiglie piuttosto che alle categorie sociali. Un trasversalismo abile e spregiudicato che il Renzi governativo utilizza sempre più come grimaldello per azionare le leve del comando e del consenso. Un overdose comunicativa irresistibile per ogni avversario politico al netto di Beppe Grillo. Il centrodestra chiuso nelle sue contraddizioni, nella debolezza delle leadership, nel lungo crepuscolo berlusconiano lo aiuta non poco giocando a ridursi a terzo polo dell’arena politica.
Un altro assist lo ha offerto Mario Moretti, amministratore delegato del gruppo Fs, che difendendo il proprio stipendio ha suscitato un’ondata di sdegno che rimbalza tra social e piazza. Renzi ha stroncato anche lui in men che non si dica: “Moretti e gli altri manager pubblici lamentosi si adegueranno. Punto”.
Il decisionismo, la leadership, il centro della scena, la tensione duale con l’avversario come linfa vitale della politica moderna. Matteo l’impetuoso contro la palude dei burocrati, contro i manager strapagati, contro le associazioni di categoria privilegiate. Renzi mira a conquistare la testa degli italiani, ad insinuarsi, a farsi sentire dalla loro parte, a spronarli nella risoluzione dei conflitti d’interesse che impediscono le riforme. Se il governo latita, Renzi muore. Se non c’è notizia quotidiana, Matteo vede i fantasmi. Una strategia ben oliata e, verrebbe da azzardare, studiata a tavolino.
L’impressione è che la rottamazione sia cosa molto diversa dell’eliminazione politica dei vecchi dirigenti del Pd, che di fatto non è stata né totale né possibile, né uno straripante nuovismo programmatico o culturale ma sia un modo d’interpretare il ventunesimo secolo, la democrazia, i media nella maniera più performante possibile in termini di consenso e convicimento.
E’ un semplice metodo, un modus vivendi politico che allo stesso tempo riesce ad essere molto più superficiale e molto più profondo.