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Marco Biagi, in ricordo di un moderno eroe borghese

Marco Biagi e io eravamo molto amici. Parlare di lui e del suo lavoro (nel dodicesimo anniversario del suo assassinio) fa parte della missione a cui ho dedicato il mio impegno da quando, in una serata di incipiente primavera, il 19 marzo 2002, il professor Biagi venne assassinato da un commando di terroristi, sotto casa, a Bologna, a due passi dalle Due Torri. A difenderlo non c’era lo Stato, ma solo la sua bicicletta.

Marco Biagi non era un cultore della precarietà. Riteneva, tuttavia, ineluttabili talune trasformazioni del mercato del lavoro, nei confronti delle quali l’alternativa, non era tra stabilità e precarietà, ma tra ‘’flessibilità normata’’ (è una sua definizione) e lavoro sommerso (laddove fosse possibile evadere) o non/lavoro.

Il professore bolognese era un giurista colto, attento osservatore di quanto accadeva nel mondo. Aveva compreso come e quanto la globalizzazione dell’economia avrebbe influito sui rapporti di lavoro, fino a sostenere che la sua materia, il diritto del lavoro, era destinato a divenire una branca del diritto commerciale. E si era accostato al mondo dell’occupazione confinata nel Limbo compreso tra il lavoro dipendente e quello autonomo (cui i giuslavoristi tradizionali guardavano con sufficienza ed ostilità come se si trattasse di una devianza rispetto a ciò che era sempre stato e tale doveva restare immutato nel tempo) con l’occhio di chi cerca delle soluzioni, propone delle regole in grado di rispondere alle esigenze delle imprese e di indicare delle tutele compatibili per i  lavoratori.

Così Marco Biagi non esitò a divenire un ‘’giurista di frontiera’’, attento a quanto si muoveva nella ‘’terra di nessuno’’ dei nuovi rapporti di lavoro. Mentre i suoi colleghi contrassegnavano le aree grigie del mercato del lavoro con la classica scritta hic sunt leones, Marco parlava apertamente di ‘’diritto dei disoccupati’’ cioè di “quella fragile trama normativa esistente per coloro che non hanno ancora un lavoro, che lo hanno perso o che sono occupati nell’economia sommersa”, nella consapevolezza che il primo dovere del giurista è quello di portare la ‘’regola’’ laddove non esiste: una regola che serva alla vita reale e che non pretenda di fare il contrario, di costringere, cioè, i processi fattuali a sottoporsi a norme insostenibili e perciò condannate ed essere violate, neglette od eluse.

In una qualche misura Marco fu protagonista, a cavallo tra la fine del ‘’secolo breve’’ e l’inizio di quello nuovo, di un’operazione importante di innovazione culturale nell’ambito di un diritto del lavoro che vedeva inaridirsi, giorno dopo giorno, i campi su cui i giuslavoristi avevano costituito rendite di posizione dottrinarie e scientifiche, fino a non avere più nulla di nuovo da dire e da scrivere che non fosse stato detto e scritto già tante volte.

In tale contesto, Marco Biagi è stato un precursore, in quanto ha compreso tra i primi che stava sorgendo ed ampliandosi una nuova area nel mercato del lavoro la quale non costituiva un fenomeno degenerativo, come riteneva e purtroppo ritiene ancora la cultura dominante, ma aveva delle caratteristiche proprie, verso la quale stava indirizzandosi l’evoluzione (magari anche l’involuzione) dei rapporti di lavoro. Mentre la dottrina tradizionale si sforzava di ricondurre tali processi (considerati anomali se non proprio truffaldini) all’interno di una visione classica del lavoro dipendente standard, Biagi cercava di intravederne e studiarne i presupposti giuridici che li rendevano non solo legittimi, ma utili se regolati e trasparenti.

Il tempo, che è sempre galantuomo, ha finito per dare ragione a Biagi. Alla luce dei riflessi negativi sull’occupazione derivanti dalla riforma Fornero, il neo ministro Giuliano Poletti sta gestendo con realismo e buon senso una ‘’liberalizzazione’’ dei contratti a termine che risponderà a quelle esigenze di flessibilità di cui Marco fu il primo regolatore, dal Libro Bianco del 2001 alla legge n. 30 del 2003, a lui intestata.

Che altro aggiungere? Solo dolore e rimpianto. Se Marco fosse vivo – e se lo avesse voluto – oggi sarebbe sicuramente un uomo di governo o un parlamentare di rango; oppure, occuperebbe un posto rilevante nelle Istituzioni, forte del potere autentico che deriva dall’autorevolezza e dalla competenza.

Il suo lascito non ha soltanto un grande valore morale. E’ l’attualità del suo pensiero che va messa in evidenza e che ha zittito i suoi tanti nemici. E’ la sua capacità di guardare lontano, di scorgere il profilo di un orizzonte che scorre oltre la linea che noi tutti vediamo. Le persone comuni sanno benissimo che al di là dell’orizzonte ci sono altre pianure, altre valli, altre montagne, altri fiumi, altre città.

Ma devono arrivare in quel punto per poter guardare oltre ed osservare da vicino tutto ciò che non riuscivano a scorgere prima. Marco aveva il talento di coloro che sanno vedere più in là. Oltre l’orizzonte di noi tutti. Lo fanno con gli occhi dell’intelligenza e della fantasia, con quell’intuizione profetica e missionaria di chi è in sintonia con il senso di marcia della storia. Ecco perché il pensiero del professore è ancora vivo e vitale, ricco di insegnamenti. Ecco perché gli siamo ancora grati.



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