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Professione lobbista: un nuovo libro sulle lobby

Si chiama Professione lobbista. E poi sottotitola “portatori d’interessi o faccendieri?”. Bella domanda. Non la più originale di tutte, forse. Ma proprio per questo importante. Se nel 2014 abbiamo ancora bisogno di chiederci chi sia il lobbista, e in cosa consista la sua professione, evidentemente il dibattito non è esaurito. Bene, allora, un nuovo contributo sul tema (Qui il link al libro)

Nel libro c’è anche una breve postfazione che ho scritto, proprio per raccontare le sfide della professione. Eccola qui:

Ma siamo sicuri che sia una professione? Non è facile dare una risposta. Anzi è difficile, quanto lo è sintetizzare in poche battute i tanti spunti di riflessione che offre un libro che deve fare tante cose in una: fotografare l’attualità politica, raccontare i dilemmi che vive una “professione” complessa, tratteggiare la giungla della formazione e la palude che ha generato, oltre – naturalmente – a soffermarsi sul funzionamento di una democrazia. 

Alla condanna che subisce chi sceglie di scrivere sul lobbying in Italia – una non-professione che riesce a essere tante altre cose assieme – si aggiungono i contorni drammatici che ci consegna un momento storico complesso e imprevedibile come quello attuale. Raccontare il lobbying diventa così un esercizio faticoso, per almeno due ragioni. Anzitutto perché si scrive con il rischio di perdere il treno. O di fare il passo più lungo della gamba. Sarà per questo che fino ad oggi la responsabilità di raccontarne le vicende al di fuori del più rigoroso (e, diciamolo pure, noioso) contesto accademico sia ricaduta sulle spalle dei giornalisti, con le conseguenze che conosciamo tutti. Salvo poche e rarefatte eccezioni il lobbying, o meglio: la lobby, è vissuta grazie alle parole stampate sui quotidiani. Così, vivacchiando, ha proliferato, anche se lo ha fatto alla giornata, vittima e carnefice dello scandal(ett)o dell’ultima ora: quello che dimentichi poche pagine dopo.

Il secondo rischio per chi oggi si cimenta nella scrittura di questo tema è quello di cedere alla tentazione di suggerire soluzioni banali ai problemi. Succede perché chi scrive impara a conoscere, si convince che i problemi non sono poi tali, o sono addirittura semplici, con soluzioni a portata di mano. La verità è che non c’è il coniglio nel cilindro e non esiste un modo per raccontare meglio il lobbismo. Né mi pare ci siano soluzioni o risposte praticabili senza tempi e costi considerevoli. Al massimo si può fare di tutto per non cadere in trappola, regalando a chi legge una prospettiva che da solo non avrebbe avuto.

Questo libro non cede a nessuno dei due rischi, è questo il suo pregio. La narrazione scorre fluidamente tra eventi, dilatandosi a volte, comprendendo episodi che, letti nell’insieme, trovano un senso compiuto. Capitolo dopo capitolo non si affanna a rincorrere l’attualità (del resto, nel momento in cui il volume è in stampa ci sono almeno tre incognite aperte: la riforma elettorale, il passaggio del testimone a Palazzo Chigi e l’applicazione concreta delle norme sulla corruzione). E, soprattutto, non contiene ricette salvifiche per la lobby. Offre invece spunti di riflessione, almeno quattro, tutti di “lungo periodo”, come si dice tra gli economisti, e tutti di grande interesse.

Il primo sul quale riflettere è certamente il più importante. Da anche il titolo al libro. Si tratta del professionista-lobbista. È il più importante e anche il più complesso, al punto da diventare l’ultimo dei problemi che si può risolvere. Prima ci sono, in ordine: la questione etica, quella della formazione e quella delle regole.

L’etica, lo abbiamo visto, non paga. L’Italia ha una tradizione povera in materia. I codici etici non hanno mai funzionato perché, si è detto, non si adattano allo spirito nazionale. Il nostro è un popolo che ha imparato ad adeguarsi e sopravvivere, a “tirare a campare”, basandosi sul genio e l’inventiva. Nelle pubbliche amministrazioni, ma anche nelle aziende private e nella vita di tutti i giorni, fuori dagli uffici, il nostro è un popolo scarsamente propenso all’etica. Non che gli italiani siano immorali. Ma è l’essenza stessa del saper contrattare, del trarre un vantaggio dal compromesso, del difendere le rendite acquisite piuttosto che rischiare il capitale, che fa del nostro un Paese eticamente deficitario. Pure volendo negare questa ricostruzione molto generalista, resta il fatto che le norme dei codici di condotta hanno sempre avuto un’importanza marginale. Vuoi perché prive del principale deterrente alla violazione di qualsiasi regola: la sanzione, vuoi perché poco incentivate. Sta di fatto che l’etica resta uno dei problemi centrali, e irrisolti, del lobbismo in Italia.

Alla (poca) etica si aggiunge la cattiva formazione. Cattiva non perché sia di scarsa qualità. Cattiva perché frammentata, dispersa tra mille possibili varianti che confondono lo studente e sconsolano lo studioso. Non c’è un percorso universitario accreditato, non esiste un parametro accertato post-universitario, né una qualifica che possa indicare cosa contribuisce a fare di un lobbista un “buon lobbista”. Ci si affida di più all’esperienza, che per definizione è priva di standard certi di riferimento. Prevale il concetto di bottega rinascimentale, con il giovane lobbista preso per mano e condotto passo passo dal vecchio lobbista. Per cui se il maestro è bravo avremo un buon allievo, altrimenti…

Resta comunque molto difficile farsi un’idea chiara della scala dei valori. Vale di più un lobbista che si è formato nella grande azienda, dov’era poco più di un numero su un badge, o quello che ha lavorato nel piccolo studio, dove faceva tutto, o quasi, da solo? È più rassicurante quello che viene da un’esperienza di assistente parlamentare o quello che ha due master e tanti tirocini?

Basterebbero delle regole, direte. Certamente sì. Non fosse che le regole non ci sono, e questo è il terzo spunto di riflessione (e problema) che pesa sul giudizio della categoria. Mancano le regole date dal Parlamento, e questo è un fatto noto. Ma sono assenti anche le regole date dalle piccole amministrazioni locali. Bene le sperimentazioni di alcune regioni. Ma sappiamo tutti che sono rimaste lettera morta, materiale buono per una pubblicazione scientifica, e basta. Francamente, tra le due assenze, pesa più la seconda.

Le conseguenze le conosciamo. Senza regole previse non ci sono lobbisti formati, centri di formazione adeguati, partiti responsabili e diritti e doveri. C’è invece una giungla fitta fatta di “vorrei e posso”, “potrei ma non voglio”, “posso?”, “voglio!” e via avanti con il vocabolario che descrive rapporti opachi e pericolosamente fragili: quelli tra chi rappresenta un interesse e chi lo difende. 

Eccoci al punto di partenza: ma siamo davvero sicuri che lobbying sia una professione? Nei numeri certamente sì. Che tanti svolgano questo lavoro è un dato che non ha bisogno di conferme. Nella qualità anche. Con qualche certezza di meno forse, ma, tutto sommato, chi lavora nel settore delle pubbliche relazioni (o degli affari istituzionali) ha una professionalità da spendere.

Ma tutto questo non è inquadramento professionale. Non, almeno, alle condizioni che regolano (a volte anche troppo) professioni più note: gli avvocati, i commercialisti, gli ingegneri. Fin qui potremmo anche starci. Difficilmente un ordine professionale potrebbe mettere assieme e comporre a unità competenze così diverse. Il che spiega il proliferare di associazioni che riuniscono, a vario titolo e sotto bandiere diverse, i professionisti della comunicazione e delle pubbliche relazioni. Funzionano quelle, l’ordine professionale non serve. Servono semmai criteri snelli di inquadramento e trasparenza. L’inquadramento per dire chi è lobbista e chi non lo è. La trasparenza – una parola molto rischiosa perché può voler dire tutto e niente, e il più delle volte è usata per non dire niente – per far capire alle istituzioni, all’opinione pubblica e agli stessi lobbisti chi fa cosa e per quanto.

Tutte queste cose assieme contribuirebbero a rendere i lobbisti professionisti. La loro mancanza è invece la più grande condanna di questa categoria: quella – mediatica prima ancora che giuridica – del trafficante di influenze, illecite, in una democrazia malata.

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