In occasione dell’anniversario dell’uccisione di Marco Biagi la Fondazione a lui intestata (di cui è instancabile animatrice la vedova Marina) organizza, annualmente, un convegno internazionale sul diritto del lavoro a cui io partecipo con assiduità. Quest’anno la Fondazione ha voluto andare oltre i confini dell’Europa aprendosi non solo agli Usa, ma anche ai nuovi Paesi saliti prepotentemente alla ribalta dell’economia globale. E l’incontro di esperienze ha ravvivato il convegno.
La Vecchia Europa è stanca e noiosa, disperatamente abbarbicata a difesa di diritti ormai divenuti insostenibili e irriducibilmente alla ricerca di nuovientitlements che li chiamava Ralf Dahrendorf, un sociologo e scrittore tedesco ma naturalizzato nel Regno Unito, ora scomparso, in gran voga una ventina di anni or sono. Nella sessione che ho seguito, alcune studiose nord europee spiegavano quali iniziative sono state assunte o sono in corso di predisposizione nei loro fortunati Paesi – in tema di pari opportunità – per obbligare i padri ad avvalersi del congedo parentale allo scopo di accudire paritariamente i figli. Verrebbe da chiedere alle relatrici come mai è tanto elevato il ricorso al part time delle donne lavoratrici proprio laddove è alto anche il tasso di occupazione femminile (in altre e più semplici parole, le donne, anche nei Paesi dove i premier maschi si avvalgono propagandisticamente del congedo parentale chiedono di lavorare a tempo parziale per motivi tanto evidenti che è inutile cercare ulteriori spiegazioni).
Ma la parte dell’interlocutore ‘’politicamente scorretto’’ l’ha fatta un professore indiano (che insegna in un’università francese), incaricato di illustrare i problemi del lavoro del suo grande Paese d’origine. Il suo ragionamento è risultato semplice e disarmante: in India la Costituzione e le leggi riconoscono una griglia di diritti allineati con le raccomandazioni degli organismi internazionali, ma la grande maggioranza dei lavoratori indiani non sa che farsene, perché, in misura del 92%, essi sono occupati nella economia sommersa. Un secco richiamo alla realtà opportuno nel contesto del convegno: quelli sociali non sono diritti assoluti, ma vengono fortemente condizionati, nell’an e nel quantum, dalla loro sostenibilità economica.
Anche i Padri costituenti ne erano consapevoli quando, nell’articolo 38 della Carta fondamentale, impostarono i principi del ‘’welfare all’italiana’’. Non a caso nel testo vengono usate le parole ‘’mezzi necessari’’ con riferimento alle prestazione assistenziali inclusive e ‘’mezzi adeguati’’ alle esigenze di vita per quanto riguarda i classici diritti previdenziali (nei casi di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria). Ambedue le definizioni – pur prefigurando un livello di tutela qualitativamente diverso – incorporano l’idea del limite, economico prima che giuridico, definito dall’ammontare delle risorse disponibili, in un ambito equilibrato con le altre esigenze da soddisfare in una società complessa ed ordinata, in cui i diritti sociali sono sicuramente un elemento importante di coesione, ma non rappresentano di per sé un’assoluta e solitaria priorità, come sovente vogliono farci credere. Ciò è tanto più vero quando vi sono dei processi dell’economia reale, dell’occupazione e della demografia che rendono insostenibili regole definite in altre epoche e scenari.
Ciò significa che dobbiamo arrenderci all’evasione fiscale e contributiva, al lavoro sommerso, alla violazione dei diritti ? Sicuramente no. La soluzione sta nell’adottare norme che siano applicabili, che si propongano di risolvere i problemi concreti delle imprese adottando nel medesimo tempo forme compatibili di tutela del lavoro. Non si tratta di un discorso peregrino, più di filosofia che di politica del diritto, ma di un ragionamento molto concreto ed attuale che riconduce anche noi a quella parte del jobs act del governo Renzi che ha trovato sede nel decreto legge (la liberalizzazione fino a 36 mesi del contratto a termine e la semplificazione dell’apprendistato). Io non sono convinto che Matteo Renzi e Giuliano Poletti si siano del tutto resi conto del significato e degli effetti della norma di revisione della disciplina dei contratti a termine né sono pronto a scommettere che riusciranno a portare a conclusione l’impresa nella sua interezza. Nubi nere si addensano sul provvedimento alla Camera, dove è forte l’influenza della Cgil nella persona del presidente della Commissione Lavoro, Cesare Damiano, il quale ha già preso pubblicamente le distanze.
Ricapitoliamo brevemente i contenuti della revisione. L’indicazione della causale (ovvero delle ragioni che giustifichino il ricorso alle assunzioni a termine, sindacabili quindi in sede di giudizio e sanzionate con la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato) non è più richiesta per tutti i 36 mesi di durata massima consentita del rapporto a termine con il medesimo datore. All’interno di questo periodo sono ammesse fino ad 8 proroghe successive, a condizione che il lavoratore continui a svolgere l’attività per la quale è stato assunto inizialmente). Questo criterio si estende anche alla somministrazione. E’ previsto un limite massimo del 20% di assunzioni a termine rispetto all’organico complessivo, ma tale indicazione, derogabile da parte della contrattazione collettiva, dovrebbe non valere per le sostituzioni e nei settori caratterizzati da stagionalità.
E’ vero che l’uso del contratto a termine ha un costo contributivo maggiore a carico delle imprese, ma già la liberalizzazione fino a 12 mesi, prevista dalla legge Fornero, aveva incontrato, in sede di applicazione, il favore dei datori di lavoro, arrivando persino a sovrapporsi ad altre forme di flessibilità, sicuramente meno tutelanti per i lavoratori, ma assai più a rischio di illegittimità per le aziende, viste le misure ostative, spesso prive di un’elementare ragionevolezza, introdotte dalla legge n. 92 del 2012. Non serve essere profeti per prevedere che, alla luce di queste modifiche, il contratto a termine, che già ora interessa il 70% circa delle attivazioni (il dato riguarda il flusso delle assunzioni non lo stock), acquisterà ancor più centralità ed importanza nell’accesso al lavoro. E pensare che meno di due anni or sono la legge Fornero declamava all’articolo 1 la seguente finalità: ‘’l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto ‘’contratto dominante’’, quale forma comune di rapporto di lavoro…contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali.’’ Ma c’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato.
Per anni il fior fiore dell’intellighenzja della sinistra si è cimentata con la proposta di un contratto (inizialmente definito anche ‘’unico’’) a tempo indeterminato a tutele crescenti. Ne sono uscite tante versioni ognuna con la sua brava paternità. Ma l’obiettivo era comune a tutti i progetti. Le imprese venivano incoraggiate ad assumere a tempo indeterminato perché, per un certo arco di tempo, la risoluzione del rapporto non sarebbe stata presidiata dal rischio della reintegra giudiziaria, ma solo del risarcimento del danno. Trascorso quel periodo di tutela più leggera per il lavoratore, l’articolo 18 avrebbe ripreso pienamente il suo volto tetragono. In questo modo – dicevano i sostenitori delle proposte – si sarebbero tolti di mezzo i rapporti spuri, riconducendoli al loro uso corretto. Bene.
Se il decreto non subirà troppe modifiche nella parte che riguarda i contratti a termine, sarà questo istituto a soppiantare il ‘’contratto unico’’ ancor prima di nascere (ora è confinato in una norma di delega con apparente funzione residuale ed aggiuntiva, come se si trattasse di una forma contrattuale in più). Non solo. Il contratto a termine di Giuliano Poletti riuscirà anche nell’intento di fare piazza pulita dei rapporti c.d. atipici. Perché, grazie alla prevista acausalità, proteggerà da amare invadenze giudiziarie i datori di lavoro.