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Che cosa unisce i due Papi santi

Dichiarare solennemente la santità di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II – al contempo – è il miglior modo ecclesiale per festeggiare il cinquantenario del Vaticano II. La doppia canonizzazione, infatti, esprime l’attitudine alla modernità che la Chiesa cattolica ha ormai maturato, all’alba del terzo millennio cristiano e in piena congiuntura bergogliana, nel solco di quel grande concilio che diede impulso al suo dialogo col mondo.

Si tratta della stessa attitudine moderna coltivata e vissuta dai due pontefici. Non mi riferisco soltanto e semplicemente al fatto di salire per la prima volta su un treno che viaggia oltre le periferie di Roma, o di scivolare sugli sci lungo le pendici innevate del Gran Sasso. Penso piuttosto al senso dell’attualità e del futuro che Roncalli e Wojtyla ebbero parimenti. Cioè la disposizione, già leoniana del resto, a discernere le novità che raggiungono la Chiesa con ritmi così incalzanti da rischiare di lasciarsela alle spalle, impastoiata nei suoi ritardi. Ma, pure, la disponibilità a produrre novità, ad azzardare scelte inedite, a innescare cambiamenti, a realizzare l’«aggiornamento» di cui parlava proprio Giovanni XXIII all’apertura dei lavori conciliari, a orientare sin dagli inizi il corso del nuovo millennio che il papa polacco, dal canto suo, vedeva sopraggiungere.

Tale senso dell’attualità e del futuro, però, era – nel caso dei due santi – peculiarmente cristiano: significava sì scrutare i cosiddetti «segni dei tempi», ma «alla luce del Vangelo», per dirla in stile conciliare. Un vero e proprio esercizio spirituale: non in senso meramente devozionale, bensì in senso “pneumatico”, vale a dire collegato all’azione dello Spirito di Dio che illumina di una inopinata sapienza l’intelligenza umana, rischiarandone la visione, facendo luce nelle pieghe strette e sulle piaghe aperte della storia. In questa prospettiva l’attitudine alla modernità, cui mi sto riferendo, fu in Roncalli e in Wojtyla specificamente cristiana. Fu capacità di accettare, una buona volta, la creatività scientifica e tecnica dell’uomo contemporaneo riconducendola, finalmente, alla creaturalità dell’uomo d’ogni tempo: «aggiungere a questa impresa – come leggiamo nel diario di Giovanni XXIII, al 12 agosto 1962, mentre Jurij Gagarin girava le prime orbite attorno agli estremi confini del pianeta – il punto giusto e cristiano, cioè che la terra è del Signore». Nessuna demonizzazione, dunque, del progresso umano. Anzi, un’interpretazione teologica di esso, utile a valorizzare «ciò che conta», come sempre il papa buono annotava in quella sua pagina: la collaborazione tra gli uomini di buona volontà per una «sicura pace» e per un’«autentica fraternità». Nella medesima scia si mosse Giovanni Paolo II, con certe sue intuizioni formidabili, inverate più nello spazio dell’invocazione che in quello della dimostrazione, come il dialogo tra le religioni tentato nella e con la preghiera ad Assisi.

Questa sensibilità moderna, dunque, accomuna i due papi santi del secondo Novecento. Diversamente le loro vicende differirebbero tanto da far reputare arbitraria la decisione di canonizzarli insieme: di memoria contadina Roncalli, d’esperienza operaia Wojtyla; storico di formazione il primo, filosofo il secondo; di pratica diplomatica l’uno, pastorale l’altro; asceso settantasettenne e rimasto sulla cattedra petrina appena cinque anni Angelo, eletto cinquantottenne e immerso nel lavoro per più di un quarto di secolo Karol. L’attenzione per la novità e in definitiva allo Spirito, che rinnova tutto e tutti, sancisce invece la loro coerente continuità.

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