Skip to main content

Epidemie e pandemie, le nuove demografie della salute e della malattia di massa

Da sempre l’uomo convive con fenomeni patologici di massa che investono con grande rapidità l’intera popolazione. E’ un effetto inevitabile, data la sostanziale equalizzazione delle risposte biofisiche, genetiche, alimentari, culturali e di prassi medica alle nuove minacce che ogni popolazione presenta.

Lo stesso vivere insieme permette la simbiosi di fatto dei batteri e dei virus tipici di quella popolazione umana con gli esseri umani stessi, che imparano, con qualche “caduto sul campo”, a adattarsi al ritmo delle flore batteriche che si sono insediate in quella razza o sottorazza umana.

La prima pandemia, che veniva, lo sappiamo oggi, dalla Cina, della storia recente è quella del 1918-’19, di influenza, che fece ben 50 milioni di morti nel mondo, in 15 mesi e in tre ondate successive, che colpivano coloro che si erano immunizzati, sopravvivendo, alle variazioni precedenti dello stesso virus che, essendo in rapidissima evoluzione, presenta una evoluzione darwiniana rispetto al suo ambiente d’attacco che nessun altro organismo multicellulare, nemmeno i batteri, può superare in rapidità.

Tutte le pandemie, dalla “spagnola” del 1918-1919 alla SARS e alla “aviaria” vanno a ondate, e rispecchiano, secondo i calcoli della “teoria delle popolazioni”, la quota di immunizzati totali, parziali, e la velocità relativa di variazione del virus che è maggiore quanto maggiore è la popolazione che lo “ospita” infettandosi.
Viene qui in mente la “Teoria dei Frattali”, che sono delle figure geometriche che ripetono uno stesso motivo su scala sempre più ridotta.
Le spirali sono tutte dei frattali, e il DNA è una spirale, è cosa ben nota. La spirale logaritmica che, se la vediamo bene, sembra un emisfero cerebrale in sezione, è ovviamente un altro frattale. I batteri e i virus di una popolazione microscopica sono frattali.

Ed è questa probabilmente la similarità di base tra evoluzione della popolazione umana e parallela, e contrastante, evoluzione dei batteri e dei virus che, “buoni” o “cattivi” vivono in simbiosi con l’homo sapiens.
Siamo abituati alla evoluzione dei batteri, che si stanno evolvendo fatalmente adattandosi, lo abbiamo visto, alle nostre strategie “alla Pasteur” di sterminio selettivo di questi esseri unicellulari, e reagiranno duramente, abbiamo visto anche questo, nei prossimi anni alle nostre vecchie artiglierie chimiche e antibiotiche.

Ma sono i virus ad essere gli esseri più attivi nelle recenti pandemie globalizzate: abbiamo il Sin Nombre virus, attivo dal 1993, il Saba e l’Hendra Virus nell’anno successivo, quest’ultimo agente della encefalite spongiforme, l’aviaria H5N1, il Nipah Virus del 1999, il Metapneumovirus, 2001, il Coronavirus della ben nota SARS, il Bocavirus del 2003 e tanti altri che, con ogni probabilità, si sono evoluti in aree che, precedentemente, non erano state toccate dalla “globalizzazione” e nelle quali, forse, i vari tipi di virus avevano già generato qualche forma di immunizzazione o di adattamento sociale e alimentare alla malattia.

L’immunizzazione può essere biochimica o sociale, ed in entrambi i casi abbiamo un Frattale sociale: il piccolo uomo ammalato o la sua famiglia reagiscono con un meccanismo che è una metafora sociale o comunicativa di quello che la biochimica dell’homo sapiens sta operando nel singolo organismo.
Inoltre, tutti i virus più pericolosi che abbiamo citato, oltre a moltissimi altri che ben conoscono gli studiosi, sono persistenti nelle grandi popolazioni animali a rapida riproduzione, come i ratti, o in animali costantemente a contatto dell’uomo, come i cavalli, e in altri animali che fanno parte in modo definitivo della nostra dieta, come i maiali.
I topi sono all’origine, oltre che della vera e propria pandemia moderna, anche dell’immaginario mitico della pandemie antiche: basti citare qui la descrizione che Albert Camus da della Peste a Tunisi e ricordarsi che la Yersinia Pestis normalmente ha bisogno di un vettore intermedio per poter infettare l’uomo.

E’ una malattia dei roditori, e qui il simbolismo del topo come animale assolutamente immondo è ben nota fin dagli Egizi, la pulce morde i ratti ammalati e porta la Yersinia, che si blocca nel proventricolo dell’insetto, direttamente nel sangue dell’uomo.
La Grande Peste, la Peste Nera del 1347, che avanza nel Nord Est dell’Europa fino al 1351, ha bisogno per svilupparsi e divenire onnipotente di molti elementi correlati di tipo sociologico, ecologico, economico, esattamente come l pandemie attuali che, generate dalla rapida esposizione di masse rilevanti di esseri umani ad un nuovo bacillo o virus, sono però figlie della sottoalimentazione, della mancanza di igiene, dell’eccesso di popolazione relativa in aree di per sé non adatte all’ominazione.

Anche allora, come oggi, la mortalità è maggiore nelle aree povere dei grandi centri urbani, mentre le classi dirigenti, oggi come allora, sono sostanzialmente escluse dal contagio.
Ma la vita si allunga, e con essa la debolezza strutturale dei corpi invecchiati e la possibilità di venire infettati da un qualsiasi agente patogeno.
Quindi, l’avanzamento dell’età media è derivato, in Occidente, dalla permanenza dei sistemi sanitari socialmente determinati, distributivi e non a “capitalizzazione”, dalla permanenza delle grandi strutture di gestione e pulizia delle acque e, oggi, delle arie, dall’aggiornamento delle reti fognarie e dalla razionale distribuzione della popolazione rispetto alle malattie per le quali è già largamente immunizzata.

Non si deve inoltre dimenticare che, senza alcuna ombra di razzismo, naturalmente, la relazione controllata tra popolazioni in arrivo non immuni (o immuni ad altro) e quelle residenti è, anch’esso, un potente elemento di equilibrio nella guerra infinita tra noi, i batteri e i virus.
La vita media, in Italia, ha oggi raggiunto gli oltre 79 anni per gli uomini e gli 84 per le donne, secondo i dati Istat del 2009, più di venticinque-trenta anni in più in meno di un secolo, e di quasi due anni per gli uomini e di 1,3 per le donne nel solo ultimo decennio.

Nella metà del secolo XIX, ricordiamolo, nel solo Piemonte, solo il 5-6% della popolazione totale superava i sessanta anni di vita.
E abbiamo qui un dato che riguarda tutto l’Occidente, e che in Italia è del tutto significativo: le nuove epidemie sonno, più che generate da virus o batteri, dalla “viralizzazione” e dalla cattiva massificazione dell’uomo.
Molte morti sono man-made: si pensi agli incidenti stradali, spesso causati da semivolontaria imperizia o follia, alla vera e propria epidemia di cirrosi epatica e di epatiti generate dall’etilismo o dall’uso di droghe psicotrope, poi ci sono le fenomenologie dell’overdose, i suicidi propriamente detti, e in tutti i casi “man-made” di morte la percentuale di uomini è, in Italia, doppia rispetto a quella delle donne.

L’alcolismo è causato, oltre che dalla semplice superficialità con la quale si assume la sostanza, dalla depressione o dallo stato di ansia permanente.
Per la dipendenza da droghe psicotrope, la causa sociologica è primaria: la cultura degli “stati alterati” che si è diffusa dalla fine degli anni ’60 in poi, con la pop music, gli stili “alternativi” di vita, la inversione di valori tra una dimensione razionale-acquisitiva dell’esistenza ad una passiva e contemplativa (e parassitaria) sono tutti elementi che hanno radicato in modo forse stabile la droga psicotropa nel mondo occidentale contemporaneo.

Nelle culture tradizionali, che conoscono le droghe e le usano in modo sacerdotale e rituale per conoscere il “mondo dei sogni” e padroneggiarlo, o per superare lo stadio immediato della conoscenza sensibile e accedere a quello che Robert Musil, nel suo L’Uomo senza Qualità chiamava “l’altro stato”, si usano le sostanze psicotrope solo per alcune persone sane e di elevato sentire, che peraltro subiscono una specie di corso di introduzione all’uso della sostanza e la assumono in dosi via via sempre maggiori, per controllarne gli effetti.
L’Occidente democratizza le droghe, le rende disponibili alla volontà del soggetto che le usa secondo il suo piacere, ma la sostanza psicotropa è un sistema per la conoscenza dell’Inconscio, anche di quello di massa, non uno strumento di espansione dell’Io.

I “valori della dipendenza” come li analizzano gli psicologi sono, sostanzialmente, i valori del nostro mondo contemporaneo.
Per i dati che abbiamo finora, inevitabilmente imprecisi, sono 208 milioni gli esseri umani che fanno stabilmente uso di droghe.
Negli USA, oltre l’8% della popolazione oltre i 12 anni risulta catalogabile come “drogato”, al primo posto tra le droghe legali vi è naturalmente l’alcool, seconda causa di morte tra i teenager statunitensi, mentre la marijuana è la prima sostanza illegale più utilizzata, con circa il 4% di uomini e donne tra i 15 e i 64 anni che ne fa uso costante.

Salgono costantemente le percentuali dell’uso di cocaina e di droghe sintetiche tra i giovani europei, con percentuali che variano dal 40% di Spagna e Francia al 12% di Italia e Grecia.
Sul piano geopolitico, che è qui essenziale per comprendere il fenomeno, oltre l’80% dell’oppio viene dall’Afghanistan, mentre nel 2010 vi erano 26-36 milioni di persone addicted agli oppiacei nel mondo, l’88% dei drogati in Eu usa oppiacei, mentre la cocaina disponibile in Europa è sempre più spesso “tagliata” con sostanze diluenti provenienti dalla Cina. E si tratta di un mercato europeo che copre circa il 5% dei cittadini dell’Unione, dai 14 ai 64, che fanno uso della cocaina.
Insomma, la prima malattia della nostra civiltà consiste nel sopportarla, alleviandone i pretesi mali con droghe psicotrope di varia potenza e origine.

L’economia “nera” vince oggi, o sta per vincere, quella “bianca” dato che il giro di affari della shadow economy (che però non riguarda solo il mercato della droga) è di 650 milioni di USD/anno, e se si conta il riciclaggio, si arriva alla cifra di due trilioni di USD l’anno.
C’è anche l’abuso di farmaci regolarmente prescrivibili, come gli antidepressivi, gli stimolanti, gli antidolorifici.
Ma continuiamo a vedere come si sviluppano le pandemie, quelle tradizionali e non, nel globo, oggi.
E uno dei primi fenomeni da osservare, nel campo delle nuove pandemie, è lo sviluppo globale dell’obesità.
Più di un terzo degli uomini è stato indicato, sin dal 2008, come a rischio obesità, a livello mondiale, e oggi siamo a 904 milioni di esseri umani obesi in tutto il globo.

Un dato controintuitivo è che questa malattia colpisce nello stesso modo poveri e ricchi, e l’OMS predice che, nel 2010, l’obesità dei paesi poveri supererà quella dei paesi sviluppati.
Cause? Eccesso di alimenti ad alto tasso di zucchero, perdita, e anche qui siamo alle cause sociali della pandemie,del ritmo naturale circadiano dell’assunzione del cibo, vuoi per motivi lavorativi che per motivi di condizionamento comunicativo, dato che oggi il prodotto pronto alimentare è pensato, per ovvi motivi pubblicitari ed economici, per essere consumato in ogni momento della giornata, in un sistema di vita atomizzato dove il nucleo familiare non si ritrova più per la quotidiana sacralità del pasto, che diviene, come direbbe il Don Juan di Castaneda, ma in tutt’altro senso, un “boccone del potere”.
Un’altra malattia dai tratti potentemente sociologici, pur se derivante dall’infezione di un virus, è l’AIDS. Ne abbiamo già parlato, ma occorre qui ricordare il caso della Federazione Russa, dove l’infezione è diffusissima, quasi più che in India, il “campione” asiatico per la diffusione dell’HIV, e anche qui c’è da notare che l’infezione si diffonde tramite la vasta comunità della droga, una “pandemia” di nuovo tipo, generata dall’adattamento errato ai ritmi e alle necessità del mondo contemporaneo, o al suo mitico “rifiuto”.

E c’è un’altra pandemia che unisce i caratteri dello stile di vita sbagliato e quelli del danno sanitario: il cancro.
Nei prossimi venti anni i casi di cancro dovrebbero aumentare, secondo la WHO, del 57% e l’epidemia di neoplasie colpirà soprattutto le popolazioni di età media e elevata, in particolare nel Primo Mondo, ma senza escludere il Terzo, in cui il cancro sarà il portato finale di molte delle malattie infettive interne che oggi si stanno innestando in quelle aree.
Il costo mondiale dell’epidemia di cancro è, sempre secondo il WHO, di 1,16 trilioni di USD, e si tratta di un costo che potrebbe essere molto risotto anche solo con le cognizioni mediche oggi esistenti: è lo stile di vita, la vera malattia dei nostri giorni, e questo vale sia per il Primo Mondo che per il Terzo che cerca disperatamente di imitarlo.

Basterebbe già una prevenzione antifumo più radicale, dato che i cancri al polmone sono quelli più diffusi (13% delle diagnosi nel mondo) e riguardano un sesto di tutte le morti da cancro nel globo.
Ma anche l’epidemia di obesità e la diffusione dell’alcolismo sono dei cofattori importanti per lo sviluppo mondiale delle malattie neoplastiche, tipiche della modernità così come l’abbiamo finora intesa.
E se, come diceva Konrad Lorenz, non fosse la nostra stessa civiltà moderna e soprattutto postmoderna una vera e propria “malattia”?

A tutto ciò si aggiunga la permanenza di antiche malattie portate dalle vecchie popolazioni ed endemiche da secoli, come, per esempio, la presenza di Helicobacter Pylori in gran parte della popolazione latinoamericana, ricordo dell’ibridazione con i popoli africani e comunque si tratta di un’affezione che moltiplica per cinque la possibilità di contrarre il cancro allo stomaco.
E anche qui si tratta di una vera e propria epidemia.
E a queste epidemie stanziali e regionali, ma potenzialmente capaci di diffondersi altrove, vi sono le ormai classiche pandemie dei paesi del Terzo Mondo, che sono ben lontane dall’essere risolte.
La meningite infetta oltre un milione di nuove persone l’anno in tutto il Terzo Mondo, portandone alla morte 174.000 per ogni milione infettato. Gli altri che sopravvivono sono di solito incapaci di badare a loro stessi. La pertosse coglie circa 20-40 milioni di esseri umani nel mondo, non solo nel Terzo, e porta alla morte ogni anno 300.000 esseri umani, di cui il 90% risiede nel Terzo Mondo.

La Febbre Gialla infetta circa 300.000 ammalati ogni anno, soprattutto nel Terzo Mondo e in Brasile, ma si sta espandendo in Africa.
Anche la diarrea è ancora una pandemia, con 4 milioni di nuovi ammalati ogni anno e due milioni di morti per anno.
Il morbillo, che Albert Sabin poco prima di morire sosteneva essere una emergenza più grave dell’AIDS, tocca 158.000 morti per anno (i dati sono del 2011) con il 95% dei casi letali che hanno luogo nel Terzo Mondo.
Anche la poliomielite, che ormai in Europa abbiamo pressoché dimenticato, è ancora endemica in aree come l’Egitto, l’Afghanistan , l’India, la Nigeria.
Perfino la tubercolosi, che peraltro sta rinascendo anche nel Primo Mondo, e nel mondo sono circa otto milioni gli infettati dal bacillo di Koch, con una mortalità di due milioni ogni anno.

Ma la domanda vera che dobbiamo porci è questa: perché malattie eradicate in Occidente o comunque non certo epidemiche nel Primo Mondo, si diffondono in maniera quasi esponenziale in molte aree dei Paesi non ancora sviluppati?
Ancora, dobbiamo studiare i fattori sociali della malattia e della salute.
Nel Primo Mondo, l’esperienza della prima infanzia, oltre che le vaccinazioni rapide, rendono il bambino tranquillo, e la densità delle nostre relazioni sociali, la loro ricchezza intellettuale e affettiva, non abbiano più l’esperienza terribile della privazione dei beni primari materiali e delle relazioni sociali essenziali.

Lo stress ridotto, a parte quello indotto dal lavoro e dalla rapidità dei cambiamenti sociali e tecnologici, è l’indicatore primario della avvenuta “transizione epidemiologica”, e del passaggio del trigger delle malattie dal batterio o dal virus all’universo della comunicazione sociale e a quello che Sigmund Freud chiamava “il disagio della civiltà”.
Ma ci sono condizioni oggettive per la crisi sanitaria del Terzo Mondo e la permanenza in esso delle “vecchie malattie” che abbiamo in gran parte debellato tra di noi.
Le cause sono ben note, ma di fortissimo impatto: a) i cattivi raccolti, che sono tipici ormai di molte della aree asiatiche e latinoamericane, 2) la minima spesa per la salute da parte dei governi locali, spesso fortemente corrotti e disinteressati alla salute di popolazioni di cui, spesso, non sanno nemmeno che farsene tranne lasciarle alla pietà delle ONG occidentali, 3) il pessimo e scarso cibo, che abbatte le difese immunitarie, 4) la distopia della distribuzione dei farmaci, che spesso non sono adatti alle malattie epidemiche dei luoghi.

Abbiamo poi a che fare con il netto taglio dei sostegni alla salute pubblica, in tutto il Terzo Mondo, che derivano dalle ricette “taglia-debito” del Fondo Monetario. La privatizzazione della salute, il trasferimento netto delle ricchezze locali e nazionali verso i mercati finanziari del Primo Mondo, le Politiche di Aggiustamento Strutturale che le banche globali hanno imposto al Terzo Mondo in questi ultimi anni sono state, per la gestione della salute, equivalenti a un ritorno indietro alle condizioni di dieci anni prima.
Naturalmente, l’esplosione della popolazione nel Terzo Mondo dagli anni ’70 in poi ha solo peggiorato le cose.
Ricordiamoci poi che le malattie collegate al cibo sono responsabili di circa un terzo delle spese sanitarie pubbliche in un paese come la Germania, e possiamo immaginare come questo “carico” si moltiplichi in aree dove la spesa pubblica sanitaria è minima e il cibo, oltre che a scarseggiare, è di pessima qualità.

Se poi studiamo le conurbazioni che si sono realizzate o espanse nel Terzo Mondo, vediamo come una delle cause di per sé inerenti delle pandemie e delle epidemie sia la stessa densità umana e abitativa di gran parte del Terzo Mondo, che diffonde in proporzione geometrica malattie di tipo polmonare o da infezione interna.
Né si deve dimenticare il ruolo delle innumerevoli guerre regionali del Terzo Mondo, che fungono da acceleratore di tutti i contagi.
E, infine, le malattie degli animali da allevamento, che si sono moltiplicate negli ultimi anni, data la caduta della qualità ecologica e climatica di molte aree tradizionalmente dedicate all’allevamento, ha permesso sia la diminuzione del cibo disponibile, come abbiamo già notato, che la facilitazione del passaggio di molte malattie dall’animale all’uomo.
Nel Primo Mondo, invece, come già abbiamo osservato parlando delle droghe e della loro eccezionale diffusione, una delle vere epidemie non-fisiologiche è la depressione.

Secondo il WHO, essa è responsabile, nel Primo Mondo, della maggior parte della perdita di vita lavorativa e produttiva nel range di persone che va dai 15 ai 44 anni, il fiore dell’età.
E non basta: secondo i dati della World Health Organization, nel 2050 ben 135 milioni di persone, in tutto il mondo, soffriranno della varie forme di demenza.
Oggi vivono in questa condizione 44 milioni di esseri umani, e nel 2030 potrebbero essere 76 milioni, arrivando nel 2050, come abbiamo visto, alla cifra eccezionale di 135 milioni di casi.
La demenza ha cause esterne e di carattere biochimico-cerebrale, e le due azioni non possono essere mai separate nel soggetto ammalato.

Le cause sono l’ereditarietà, la carenza di relazioni valide con il mondo esterno, che destabilizza anche l’equilibrio ormonale e chimico-elettrico del cervello che, come aveva intuito Cartesio, è un grande insieme di ghiandole, l’uso di determinati farmaci e alcune malattie, come la malaria. Ecco quindi che la demenza, da malattia “dei ricchi”, diviene anche sindrome dei poveri.
Solo 13 nazioni sulle 130 che compongono la WHO hanno un piano nazionale per le demenze (l’Italia ancora no) con un costo globale di effetti negativi per le demenze previste di oltre 600 miliardi di USD, un “fatturato” più grande di quello di Walmart o ExxonMobil.
Si tratta dell’uno per cento del PIL mondiale. La diciottesima economia, al mondo, se la demenza fosse un Paese (ma la vediamo ovunque) con un ranking economico tra la Turchia e l’Indonesia.
Tra le demenze internazionalmente diffuse, la prima per rilevanza è il morbo di Alzheimer, con 24 milioni di malati oggi nel mondo, al quale segue la demenza vascolare, poi la malattia di Binswanger, quella frontotemporale, che colpisce le ben note, ai lettori del Manzoni, “bozze metafisiche” che vengono colpite dalla folla milanese mentre il ferito governatore spagnolo cerca di andarsene adelante, con juicio, poi le malattie cerebrali legate all’abuso di alcool e droghe.

I costi delle pandemie, quindi, sono alti e spesso invisibili, e questo fa sì che i governi, improvvidamente, spendano le loro risorse per rischi più prevedibili e soprattutto visibili, tralasciando, e quindi ingigantendo, i costi delle pandemie passate, presenti, future.
La Banca Mondiale ha calcolato che l’epidemia di SARS originatasi in Cina sia costata 54 miliardi di USD, mentre una “normale” epidemia mondiale di influenza costa una media di 3 trilioni di USD, ovvero circa il 5% del PIL mondiale.
Anche prepararsi alle pandemie costa caro: il governo della Gran Bretagna, per esempio, ha speso 424 milioni di Sterline (708 milioni di USD) per evitare gli effetti maggiori di una recente influenza, mentre per l’AIDS le necessità di spesa per la prevenzione dovrebbero essere, fino al 2014 compreso, di 58 miliardi di USD, mentre la tubercolosi potrebbe costare, sempre nello stesso lasso temporale, 15 miliardi di USD sempre per la sola prevenzione, e 14 miliardi occorrerebbero per evitare, almeno in linea di massima, l’ulteriore diffusione della malaria.
E non si deve dimenticare un’altra epidemia man-made, quella del tabagismo: ogni anno (i dati della WHO del 2009) il tabacco uccide 6 milioni di persone nel mondo, con un trend crescente che dovrebbe portare a 8 milioni di vittime entro il 2030, dato che il tabagismo, come spesso accade per le addiction di tutti i tipi, è più diffuso nei ceti popolari e quindi è una malattia intrinsecamente di massa, mentre i ceti più elevati ne sono percentualmente meno colpiti.

Malattie tradizionali e usi sociali si mescolano sempre, nelle pandemie e nelle epidemie contemporanee, ma anche nel medioevo, come dimostra indirettamente il Decameron del Boccaccio, usi sociali particolari, l’abitudine a certi cibi, la vita in aree meno densamente popolate dei quartieri popolari, le aggiunte terapeutiche ai cibi, la loro qualità facevano la differenza tra i sommersi e i salvati, anche dalla già citata Peste Nera del 1347.
E’ quella che Nietzsche chiamava, in un suo titolo famoso, la Gaia Scienza, il gruppo di amici sapienti che si separa dal mondo, la vera cura contro le Pandemie e le Epidemie, anche oggi.
Ed è proprio la rapidità dei traffici di persone e di cose, inevitabile nella nostra economia mondializzata, ad esporre l’Occidente alle nuove Pesti Nere orientali (la SARS, le varie infezioni alimentari) e l’Oriente alle malattie alle quali siamo già immunizzati, o che sono man made come il diabete o le nuove malattie autoimmuni che saranno, con ogni probabilità, la sfida vera dei prossimi anni per la ricerca scientifica.

Non vi è mai, quindi, una separazione definitiva e oggettiva tra epidemie man made, o da abitudini socialmente e culturalmente acquisite, e epidemie cosiddette “naturali”.
Il “rischio pandemico” è valutato, dalla Banca Mondiale, a circa 30 miliardi USD/anno, con una media di rischi minori che costano da 5,8 a 9 miliardi USD.
Assi della prevenzione: il controllo della relazione tra uomo e animali, dato che tutte le grandi pandemie, da quella del 1918 alla SARS e alla “aviaria”, si sviluppano da una gestione errata delle infezioni veterinarie, soprattutto per quanto riguarda gli animali per usi alimentari, e controllo del cibo e della tenuta igienica degli animali; mentre un dato da non trascurare mai, che pure sembra meno importante di quanto non sia, è il controllo della densità della popolazione umana in rapporto a quella animale e alla possibilità di ricambio rapido delle acque e delle arie nelle zone almeno teoricamente più a rischio.

La vecchia tecnica romana (e araba) di gestire prima gli acquedotti e le fognature nelle colonie di recente formazione, per poi passare alle strutture solo apparentemente più complesse.
E non si pensi che le pandemie o le influenze man made siano del tutto estranee a quelle “tradizionali”: o vi è un elemento di cogenerazione, come per esempio nel meccanismo dell’obesità, legata a ritmi di vita e di reddito che si collegano anche a sovrappopolazione relativa, malattie da stress, spesso a una pessima gestione delle acque bianche e nere e della leopardiana “salubrità dell’aria”, oppure le vecchie epidemie si sovrappongono semplicemente a quelle più, diciamo così, “moderne”.

Per il diabete, che è una epidemia/pandemia legata sia ai modi di vita sedentari o legati all’espansione del cosiddetto “terziario” che alla malnutrizione più classica, oltre ad un inevitabile elemento di morbilità familiare, e oggi siamo passati dai 152 milioni di diabetici al mondo nel 1980, a ben 347 milioni, nella previsione massima, di oggi si può parlare di una malattia dei ricchi che si sta diffondendo anche tra i poveri, per effetto di un civilization shock negli usi alimentari e nelle abitudini sedentarie di vita.
Nel mondo, oggi, 4,6 milioni di morti sono attribuibili al diabete, e si tratta di una malattia ad alto costo unitario e per un lungo periodo di tempo: nel mondo, il costo del diabete diretto, ovvero il costo delle terapie e dei farmaci di base, è di circa 465 miliardi di USD, l’11% del totale dei costi per la sanità nel mondo.
E si noti qui che, come abbiamo già visto nell’analizzare il nesso tra epidemie “nuove” e epidemie “tradizionali”, sempre ammesso che si possa fare una così netta differenza, che la Cina e l’India, latecomer nel club delle Grandi Potenze del Diabete, oggi lo stanno sviluppando ad un tasso annuale nettamente superiore a quello di USA e Europa.

E’ probabile che, nello shock da modernizzazione-globalizzazione, tutti gli aspetti negativi per la salute si presentino quasi contemporaneamente alle popolazioni “terze”, e questa compresenza di tutti i fattori di rischio rafforzi sistemicamente e simultaneamente tutti, appunto, i fattori di rischio.
E anche in questo caso, il vecchio e il nuovo si sovrappongono: l’epidemia di alcoolismo globale sostiene l’espansione del cancro, e la diffusione dei cibi eccessivamente elaborati stimola la diffusione del cancro oltre che quella del diabete e dell’obesità.
Tout se tient, ma secondo criteri specifici e gerarchie definite, sia nello spazio dell’epidemia che nel tempo della sua massima espansione.

L’alcoolismo, in UE, fa prematuramente morire 138.000 esseri umani, dai 14 ai 64 anni, ogni anno.
In Russia, una delle aree tradizionali del bere molto alcool, e fu proprio Gorbaciov ad inaugurare, in perfetto stile leninista, l’uso dei brindisi al Comitato Centrale con l’acqua minerale, non con l’acquetta (vodka) un uomo su quattro non arriva ai 55 anni di età, con una aspettativa di vita russa oggi di 64 anni e si possono facilmente immaginare gli effetti economici e sociali di questa epidemia di alcoolismo che dura da molti anni.
Nell’alcoolismo sono attivi i recettori cerebrali degli oppioidi, come per le sostanze psicotrope più note, e la sostanza rende facilissimo l’abbattimento dei freni inibitori per la violenza e l’aggressione, soprattutto verso donne e minori.

In Italia gli alcoolisti sono circa un milione, e solo il 58% di essi utilizza le strutture sanitarie pubbliche per eliminare la dipendenza dal bere, e se l’abitudine alla dipendenza alcoolica viene presa da giovanissimi, è probabile che il cervello dell’adolescente, più facile alla stabilizzazione dei recettori oppioidi, acquisiscano la sensibilità o la necessità del ricorso ad altre sostanze psicoattive. In Germania il bere alcool porta all’ospedalizzazione di 27.000 adolescenti l’anno.
I dati globali sono sconcertanti, proprio per la loro banalità, dato che si tratta di una sostanza che tutti, chi più chi meno, utilizziamo: l’alcoolismo uccide 2,5 milioni di esseri umani, lo abbiamo visto, è la causa del 4% di tutti i decessi, (6,2% di maschi e 1,1% di donne) ed è in Europa che si trova, secondo la WHO, la più alta percentuale di heavy drinker.

Perché accade tutto ciò? Per il motivo per cui la nostra società è psichicamente malata, e non solo quelli che in essa risultano malati mentali verificabili. Non si tratta di sociologismo da salotto, il problema è che l’alcool, come le altre pandemie/epidemie moderne man made, verifica due elementi del nostro tempo: il disagio culturale e sociale, connesso ad una distruzione senza scampo dei legami tradizionali e riconosciuti, una perdita dell’Io che è connessa alla perdita del senso stabilizzante della gerarchia, un aumento delle ansie da prestazione, sia sessuali che sociali, infine una continua disarticolazione delle abitudini di consumo.
Abbiamo oggi a che fare, anche nell’Oriente in fase di tempestoso sviluppo, con la Political Economy of Stress, che è all’origine di tutte le pandemie/epidemie da uso di sostanze psicotrope.
E’ un elemento culturale e sociologico che ci porta ad interpretare, secondo questi criteri “umanistici”, la teorica recentissima del Global Burden of Disease.

Si tratta di una metrica che permette l’analisi integrata dei rischi per la salute e la mortalità per aree geografiche o, addirittura, per l’intero globo, in termini di classi di malattie.
Secondo i dati del GBD, l’Italia è seconda nel mondo come aspettativa di vita, superata solo dal Giappone, ed è la prima in Europa.
Tra gli elementi negativi, c’è la presenza rilevante del tabagismo, la crescita dei dati sull’ipertensione arteriosa,la crescita delle percentuali, per le cause di morte, delle malattie cardio e cerebrovascolari, con una crescita dei tumori delle vie respiratorie.

Disaggregando i dati elaborati per i vari gruppi statistici nei quali si suddivide il GBD, possiamo notare che: tra i primi tre elementi di rischio globale c’è l’alta pressione sanguigna, e qui abbiamo una analisi del rischio che è sia genetico-soggettiva che legata alle pandemie man made, il secondo fattore di rischio globale è proprio una pandemia, ovvero il tabagismo, oltre alle altre patologie legate all’addiction.
Come si vede, parlare di epidemie vuol dire parlare di come si evolverà, anche sul piano bio-razziale, l’umanità futura, e gran parte di questa evoluzione o involuzione dipende da comportamenti sanitari giusti o sbagliati ma del tutto determinati da scelte culturali: droghe psicotrope, l’alcoolismo, il tabagismo, i farmaci antidepressivi o stimolanti, le abitudini eterodosse riguardo al cibo.

Saremo come vorremo essere, fin da oggi, evidentemente i batteri e i virus hanno un ruolo minore, tra i fattori di rischio per la salute, dei tempi della Peste Nera o della “spagnola” del 1918.
In termini comparativi, il Global Burden of Disease (che è stato finanziato dalla fondazione di Bill Gates) mostra alcuni tratti anch’essi sociologicamente interessanti: il primo è che vi è, ovunque nel mondo, un passaggio della morbilità media dalle malattie “comunicabili” e potenzialmente mortali alle sindromi croniche non-comunicabili o di origine non-batterica o non-virale, soprattutto le malattie muscoloscheletriche (le più “care” secondo i sistemi sanitari nazionali europei) e le malattie psichiche, e le malattie non comunicabili sono passate, in EU, dall’83,1% del 1990 all’86,14% nel 201063.

Le malattie muscoloscheletriche (in gran parte, ma non solo, le vecchie artriti) sono responsabili del 29,07% di tutte le disabilità permanenti in EU e nell’area EFTA, con una sequenza di malattie che sono in gran parte man made, almeno per alcune delle cause o concause: subito dopo le malattie cardiovascolari vengono le neoplasie (che hanno collegamenti con gli stili di vita, lo abbiamo visto) e dopo i disordini mentali, quarti in classifica, abbiamo le malattie dell’apparato respiratorio, in gran parte “man made” anche per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico.
In Europa, se vediamo quello che ci consiglia e studia statisticamente la WHO, le epidemie sono in gran parte a causa culturale o di modo di vita: crescono le malattie non comunicabili, che peraltro hanno un tasso di evoluzione particolarmente rapido,e dipendono quasi integralmente da uno stile di vita eterodosso, a tutto il campo delle ischemie, che è in fase di rapida crescita, e più in EU che nel resto del mondo.

Depressione, certamente malattia culturale, ostruzione polmonare permanente (tabagismo) e malattie epatiche derivate dall’alcool sono successive nella classifica, e qui siamo ancora, in grandissima parte, nelle malattie ad eziopatogenesi culturale e sociale.
Infine, l’insorgenza di malattie tradizionali di origine batterica, però veicolate da microrganismi ormai resistenti ai consueti antibiotici, e anche questo è un indice di “malattia culturale”, abbiamo usato troppi antibatterici come se fossero la panacea per tutti i mali e oggi ne paghiamo le conseguenze.

I batteri e i virus sono infinitamente più di noi, si riproducono costantemente e il loro tasso di evoluzione darwiniana al sistema è incredibilmente elevato.
E dobbiamo ancora imparare a selezionare i batteri buoni che, per esempio, nel nostro intestino sintetizzano il fruttosio e scindono certi grassi animali (e questo fa bene anche alla circolazione) da quelli “cattivi”, che ci hanno regalato, insieme ai virus, le più efferate pandemie dei secoli passati.

Sul piano più analiticamente statistico, possiamo vedere come se studiamo il solo trend della crescita della popolazione mondiale, questo ha effetto positivo su tutti gli altri fattori di rischio per la salute, l’altro fattore che ci interessa è poi il passaggio del burden dalla disabilità alla morte prematura.
Se quindi i costi di una pandemia sono sempre elevatissimi, e non solo dal punto di vista morale e sanitario, i costi correlati, sul piano delle inefficienze economiche e delle perdite connesse alle pandemie sono ugualmente elevatissimi: la SARS, che è stata fermata, a detta del governo cinese, dopo 8000 casi e 800 morti, è costata per danni indiretti all’economia (e non si tratta qui dei costi delle terapie) ben 54 miliardi di USD.

Ovvero: le pandemie e le epidemie sono gestibili sulla base di una comunicazione di massa semplice e ormai globale, come i tanti world brand noti ormai, come dicevano i Beatles di sé stessi, “più di Gesù Cristo”, su alcune semplici regole di igiene che proibiscono alcune cose e ne consigliano altre: l’igiene personale, per esempio, anche dove non c’è acqua può essere sostituita da altre sostanze, che le ONG possono cedere a modicissimi costi per i loro supporter pubblici e privati.

Un altro punto, che non riguarda la sola comunicazione, è l’effetto delle mitologie d’oggi, per dirla con Roland Barthes, nei popoli dei Paesi Terzi: l’ossessione del sesso è gestibile in una società come la nostra, ancora pervasa da un generico (ma tra poco cambierà) “ceto medio”, mentre nei Paesi Terzi i nostri costumi sessuali possono essere socialmente ed economicamente distruttivi, con un moltiplicatore sulla salute direttamente proporzionale all’igiene, alla malnutrizione, alla produttività.
Il sesso serve a far comprare beni e servizi, in Occidente, ma nei Paesi Terzi innesca meccanismi distruttivi dei nuclei familiari che hanno immediati riscontri sul piano pandemico.

E certamente la regionalizzazione della comunicazione, la possibilità, che i new media hanno, di raggiungere ogni angolo del mondo ma selezionando i messaggi e i codici, è una opportunità da non sprecare per evitare le future, e molto probabili, pandemie ed epidemie, che si origineranno dalla parte più sviluppata del Terzo Mondo (quella che subisce gli stress alimentari ed ecologici maggiori) per arrivare a noi, e da noi diffondersi, con effetti ancor più devastanti, nei paesi del Terzo Mondo non ancora in fase di “decollo”.

Normalmente, non si possono eliminare le “basi di diffusione” dei virus, ancora più nascoste di quelle di Al Qaeda. Le provincie del Sud della Cina non potranno non mantenere in vita innumerevoli varianti del virus H5N1, il virus dell’influenza A è già passibile di trasporto da parte degli agenti patogeni della “aviaria”, e la rapidità dei trasporti e delle comunicazioni renderà sempre più inconsistente il concetto stesso di “quarantena” e il costo medio della profilassi tenderà ad aumentare, spesso in modo non sostenibile dalle economie di molti Paesi, che tenderanno collassare in correlazione di emergenze sanitarie di carattere epidemico, anche locale.

Giancarlo Elia Valori
Honorable des Academie des Sciences de l’Institut de France



CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter