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Le Regioni tra il vecchio e il nuovo Titolo V

Non è probabilmente definitiva la scelta che il Governo ha compiuto in riferimento alle modifiche costituzionali al cosiddetto Titolo V della Costituzione approvato all’inizio del 2001 da una stentata maggioranza di centrosinistra e confermato da un referendum popolare che si svolse all’indomani della vittoria politica della Casa delle Libertà.

La vicenda dell’ordinamento regionale in Italia ha infatti continuamente oscillato tra una affermazione di provenienza culturale e territoriale prevalentemente siciliana ed una realtà che ha più volte sbandato tra un desiderio di cancellazione dell’ordinamento regionale in quanto tale e – all’opposto – l’affermazione di voler andare oltre l’autonomia regionale per dar vita ad una vera e propria forma federalistica dell’Italia.

Questa oscillazione ha attraversato l’intera storia repubblicana italiana ed è pertanto molto probabile che la recente proposta governativa sia più figlia di una stagione sostanzialmente anti-regionalistica che non di un vero e proprio nuovo approdo costituzionale destinato a durare a lungo.

In termini strettamente politici vi è infatti da considerare che nella breve stagione dell’Assemblea costituente, il regionalismo di matrice sturziana riuscì ad affermarsi solo dopo un duro contrasto con due posizioni politiche entrambe contrarie al regionalismo in quanto tale: quella “liberale”, che vedeva nel regionalismo un limite alla libertà individuale, e quella “socialista e comunista”, che temeva nell’ordinamento regionale una insopportabile discriminazione concernente i diritti sociali ed economici delle persone chiamate al lavoro.

In quel biennio fondativo della Costituzione repubblicana, l’ordinamento regionale entrò nella Costituzione con un Titolo V per così dire originario, nel quale finivano con il convivere Regioni e Province da un lato e Stato ed Autonomie locali dall’altro, in una sorta di complicato compromesso tra l’originaria unità nazionale basata su Prefetti e Comuni e la nascente Repubblica delle Autonomie, mai compiutamente definita o compresa.

Da un lato infatti si affermava una sorta di autonomia regionale speciale come quella siciliana, che era in fondo persino compatibile con un vero e proprio ordinamento federale della Repubblica, dall’altro per oltre un ventennio non furono attuate le Regioni cosiddette a statuto ordinario.

Questa incompiuta costituzionale finiva per trovare proprio in un Senato del quale la Costituzione affermava dover essere eletto “a base regionale” un punto di equilibrio che non ha mai visto la luce, perché del Senato originariamente immaginato dalla Costituzione si è avuta una realizzazione concreta solo per quel che concerne un timido ponte tra generazioni.

Come sappiamo infatti, mentre per l’elettorato attivo previsto per la Camera dei Deputati è sufficiente la maggiore età, l’età richiesta per essere eletti senatori è di almeno 40 anni. Ed è pertanto probabile che su questa base il Presidente del Senato sia chiamato ad essere supplente del Presidente della Repubblica, il quale a sua volta deve avere almeno 50 anni.

La stagione del regionalismo originario si completò nel corso degli anni ’70 con una sostanziale affermazione del cosiddetto principio dei “settori organici di materia” che vedeva nel Comune il riferimento principale dei servizi sociali; nella Provincia il soggetto istituzionale preposto soprattutto all’assetto del territorio; e nella Regione – peraltro solo burocraticamente intesa – il soggetto chiamato a promuovere lo sviluppo economico di ciascuna regione nel quadro più generale dello sviluppo economico dell’intera Italia, approdata nel frattempo al processo d’integrazione europea che stava proprio passando da una fase quasi esclusivamente economica ad una stagione di prevalente spinta democratica, come è testimoniato dal fatto che fu soltanto nel 1979 che si era data vita per la prima volta all’elezione popolare del Parlamento europeo.

Finivano pertanto in quella stagione con il trovare un tendenziale punto di equilibrio da un lato il processo di integrazione europea, dall’altro la progressiva riduzione dei poteri sovranazionali, e dall’altro infine la crescita di un ordinamento regionale vissuto prevalentemente in chiave oligarchico-partitocratica.

A quella stagione ha fatto seguito un lungo periodo caratterizzato dalla ripetuta richiesta di trasformazione dell’Italia in ordinamento federale con una rivendicazione di identità territoriale padana che entrava in rotta di collisione proprio con il modello di ordinamento regionale che si era concretizzato all’Assemblea costituente.

E’ in questa stagione che prende corpo il nuovo Titolo V della Costituzione, caratterizzato soprattutto da poteri legislativi concorrenti in molte e delicate materie, e di poteri esclusivi dello Stato soltanto in poche materie tendenti ad una sorta di minima eguaglianza garantita.

Questa stagione ha vissuto il suo completamento nella riforma costituzionale promossa dalla Casa della Libertà nel 2005, e respinta dal corpo elettorale all’indomani delle elezioni politiche vinte da Romano Prodi nel 2006.

Quella stagione sembra probabilmente ormai alle nostre spalle e la proposta del Governo appare pertanto caratterizzata quasi da una sorta di “furore” anti-regionalistico.

La proposta governativa, infatti, da un lato cancella il Senato e dall’altro sembra ignorare del tutto il ponte tra generazioni, allorché essa afferma che sarà proprio il Presidente della Camera a svolgere le funzioni di Presidente supplente della Repubblica, senza che si riesca a definire un nuovo equilibrio tra generazioni.

Per quel che concerne l’ordinamento regionale, il punto di scontro maggiore tra centro e periferia appare essere proprio quello della formazione professionale, perché si tratta del punto di equilibrio tra scuola e lavoro da un lato e tra composizione sociale regionale e nazionale dall’altro.

Appare pertanto del tutto comprensibile che la nuova formulazione è figlia legittima di una stagione sostanzialmente anti-regionalistica, quasi che si andasse molto oltre il tenue regionalismo della Costituzione originaria, per andare verso un futuro dove dopo la soppressione della fase elettiva delle Province. sia da immaginare un’analoga soppressione della fase elettiva delle Regioni.

Non si tratta pertanto di questo o quel dettaglio giuridico, ma di una riflessione politica di fondo.

Le grandi forze imprenditoriali e sindacali – l’una più vicina alla cultura liberale della centralità dell’impresa e l’altra più vicina alla necessaria nazionalità della tutela del lavoro – che alla costituente avevano contrastato l’originaria intuizione regionalistica di Luigi Sturzo – stanno ora avendo il sopravvento.

Queste due grandi forze avevano infatti contrastato, per così dire, da destra e da sinistra l’ipotesi politico-ideale dello sviluppo economico-sociale a base regionale ed hanno ripetutamente contrastato l’ordinamento regionale proprio inteso quale base territoriale di autonomia.

Il fatto che nella realtà concreta italiana il regionalismo è stato vissuto prevalentemente come espansione delle oligarchie partitocratiche, ha finito con l’indurre pertanto a ritenere che si tratti prevalentemente di una questione di costo della politica.

E in tempi di crisi economico-sociale, non appare pertanto strano che vi sia chi chiede sostanzialmente persino la soppressione delle Regioni.


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