Fautori convinti e difensori realisti dell’Unione economico-monetaria e dell’austerità finanziaria si richiamano ogni giorno ai patti fondativi dell’architettura europea. Primo fra tutti il Trattato di Maastricht firmato il 17 febbraio 1992. Un testo solennemente evocato quanto calpestato e stravolto dai governi nazionali e da Bruxelles.
Il tradimento di Maastricht
È la tesi, potenzialmente rivoluzionaria, contenuta nel libro “Cittadini europei e crisi dell’euro” scritto dal giurista Giuseppe Guarino, professore emerito di Diritto amministrativo nell’Università La Sapienza di Roma già responsabile dell’Industria nel governo Amato del 1992. Stagione tormentata in cui tentò, invano, di gestire un’agenda di privatizzazioni finalizzata a conservare, valorizzare e rilanciare le aziende strategiche italiane.
La vittoria del rigore sullo sviluppo
Grazie a una ricostruzione corroborata da fatti, testimonianze e ricordi, lo studioso vuole gettare una luce nuova su ciò che appare come un clamoroso tradimento delle promesse di genuina integrazione politico-economica europea. Le regole attualmente egemoni e vincolanti, a partire dal in Patto di stabilità consacrato nel Fiscal Compact, avrebbero neutralizzato ed espulso il tema della crescita che nel Trattato del 1992 aveva il sopravvento sul rigore di bilancio. Il risultato è che il potere nazionale di promuovere strategie orientate allo sviluppo ha ceduto il passo all’imperativo del risanamento dei conti pubblici.
Una voce euro-critica contro gli euro-entusiasti
Amante dell’Europa e del suo spirito originario, il giurista prospetta una visione “euro-critica” contro chi ha costruito l’unificazione monetaria sull’ossessione del 3 per cento nel rapporto fra deficit e Prodotto interno lordo: “Una pura convenzione aritmetica modellata sui mutamenti ciclici dell’economia e trasformata in dogma intangibile”. Con effetti eloquenti: fra i 38 paesi meno cresciuti nel pianeta a partire dal 2000, 13 appartengono all’Euro-zona comprese Italia, Francia e Germania.
Una lettura antitetica rispetto a quella “euro-entusiasta” emersa nel corso della presentazione del pamphlet “33 False verità sull’Europa”, scritto dall’economista ed ex componente del direttivo della BCE Lorenzo Bini Smaghi. E altrettanto salutare in vista del rinnovo dell’Assemblea di Strasburgo, che per la prima volta potrebbe produrre un Parlamento ostile all’UE.
Un “cappio al collo” privo di logica
Presentata a Roma su iniziativa della Fondazione “Luigi Einaudi”, l’opera di Giuseppe Guarino ha fornito gli stimoli per una riflessione a più voci di economisti e giuristi. Richiamando la partecipazione di personalità quali Mario Lupo, Pietro Rescigno, Paolo Savona, Massimo Teodori, Giorgio Rebuffa, Victor Uckmar, Luigi Pasinetti, Francesco Gaetano Caltagirone.
È Domenico da Empoli, professore di Scienza delle finanze all’Università La Sapienza, a mostrare l’irragionevolezza con cui dai governi italiani fu firmato, recepito, applicato il Fiscal Compact, “cappio al collo per l’avvenire del nostro paese”. Perché, osserva lo studioso, una politica di austerità imperniata sul pareggio di bilancio porta a una depressione economica. E accoglierla senza valutazioni critiche riflette un comportamento illogico, un rapporto con l’Ue di corto respiro e privo di visione.
Il paradosso dell’Euro-zona
L’Italia, ricorda il docente di Economia industriale e Commercio estero all’Università Cattolica di Milano Marco Fortis, nell’arco di 20 anni ha accumulato tra privatizzazioni e tassazione un avanzo per 700 miliardi di euro. Perdendo di vista l’obiettivo dello sviluppo. Una caratteristica comune all’intera area della valuta comune, vista la crisi economica di paesi poco indebitati come Spagna e Irlanda e il recupero di dinamismo di nazioni esterne all’euro come il Regno Unito.
Il vero problema, rimarca Paolo Savona, professore di Politica economica all’Università LUISS e presidente della Fondazione Ugo La Malfa, risiede in una Banca centrale priva del potere di intervenire sui tassi di cambio della moneta unica.
Una moneta fraudolenta
Ma è Giuseppe Guarino a tornare alle radici remote delle carenze della costruzione economica europea. Il Trattato di Maastricht prevedeva all’articolo 104 un rapporto del 3 per cento tra deficit e PIL. La norma, frutto dell’azione dell’allora capo del Tesoro Guido Carli forte del consenso della delegazione britannica, individuava la misura non come vincolo assoluto bensì come linea di tendenza cui si poteva derogare in presenza di fattori esterni persistenti: shock economico-finanziari, prolungata stagnazione produttiva, crisi di fiducia su larga scala.
Il fondamento giuridico dell’integrazione monetaria venne però vanificato con l’adozione dell’euro negli anni 1999-2002. Al suo posto entrò in vigore una regola formalmente subordinata ai trattati europei: il Regolamento comunitario 1466 messo a punto dall’ex responsabile delle Finanze di Berlino Theo Waigel, approvato dalla Commissione UE guidata da Jacques Santer e dal titolare del Mercato interno Mario Monti con la piena condivisione del capo del Tesoro italiano Carlo Azeglio Ciampi nonostante i moniti avanzati dal suo amico e premio Nobel per l’Economia Franco Modigliani. Testo, poi trasfuso nel Fiscal Compact, che prefigurava una moneta fondata sul primato immutabile del rigore di bilancio a breve termine, su un vincolo imposto a realtà non omogenee dal punto di vista economico-sociale, sulla stabilità elevata a dogma.
Lo svuotamento della sovranità democratica
Trasformato in un obbligo tassativo, il rapporto del 3 per cento assoggettò il percorso di risanamento nazionale dei conti pubblici allo stringente controllo dell’esecutivo comunitario. Bruxelles era in grado di vigilare, ma anche di orientare e mutare le strategie economiche degli Stati tramite sanzioni automatiche. Gli esiti, rileva il giurista, furono evidenti: rovesciamento dei parametri democratici, paralisi produttiva, contrazione dei consumi, crisi occupazionale.
Ma il risultato più paradossale riguarda i bilanci: “Il debito pubblico italiano ha raggiunto la cifra record del 133 per cento del Prodotto interno lordo e non potrà essere ridotto con un tasso di crescita inferiore al 3 per cento”. Neanche con l’intervento monetario di mille miliardi preannunciato dal governatore della BCE Mario Draghi. La ragione è semplice: “La Banca centrale non può contare su una legittimazione forte per le sue scelte. Perché non ha alle spalle un governo politico europeo”.