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Salmon, Greenwald, Klein. Tutte le firme del giornalismo che scommettono sui new media

Un’altra grande firma del giornalismo internazionale, Felix Salmon, lascia la stampa blasonata per approdare a un nuovo progetto che ha come base i new media. L’esperto di finanza e comunicazione ha lasciato Reuters e passerà a Fusion, una joint venture tra Abc e Univision.

IL GIORNALISMO CHE CAMBIA
La scelta del giovane giornalista non è unica nel suo genere, ma rafforza una tendenza che vede il mondo delle news in impetuosa evoluzione. Un processo iniziato da tempo negli Stati Uniti, dove le rivoluzioni di blogging, citizen-journalism e crowd-journalism (editoria finanziata da micro-pagamenti), favorite dalla contestuale penetrazione di internet, hanno reso meno netta nella percezione pubblica la linea che separava la credibilità dei cronisti di grido – spesso firme di grandi quotidiani o volti dei network televisivi – da quelli che non appartengono ai media di massa.

LA SCELTA DI SALMON
Lo stesso Salmon, in un commento pubblicato su Medium, ha spiegato i dettagli della nuova esperienza e il perché della sua scelta. “Si tratta di un canale televisivo rivolto principalmente ai millennials (i nati tra gli anni ottanta e i primi anni duemila nel mondo occidentale, ndr), la cui unica regola è di stare lontano da tutto ciò che è convenzionale“. Non solo. “La presenza digitale di Fusion – ha aggiunto il cronista – sarà tanto importante quanto la sua programmazione TV. Se non più importante“. Parole che segnalano la natura innovativa e cross-mediale del progetto, che Salmon definisce “sostenibile” e non ostaggio dei click.

GLI ALTRI CASI
Quello di Salmon non costituisce un caso isolato. Negli scorsi mesi è stato Glenn Greenwald, il giornalista americano divenuto celebre per aver raccontato al mondo le rivelazioni di Edward Snowden sul programma di sorveglianza della National Security Agency, a lasciare il Guardian per approdare a un nuovo progetto finanziato da Pierre Omidyar, uno dei fondatori di eBay.
Altro esempio celebre è quello di Ezra Klein, giovane creatore di WonkBlog, la rubrica-sito di politica economica del Washington Post che ha lasciato la testata per mettersi in proprio.
A loro possono sommarsi Nate Silver, guru dei pronostici elettorali del New York Times che ha lasciato il celebre quotidiano per lavorare in maggiore autonomia presso la tv Espn, Walt Mossberg, ex esperto tecnologico del Wall Street Journal che qualche mese fa si è messo in proprio, e il suo collega David Pogue, un altro ex Nyt.
Ad accomunare questi nomi c’è il fatto di essere esponenti di un nuovo trend nei media Usa: il “brand journalist”, che non è solo una grande firma, ma un marchio che spesso oscura quello del suo stesso giornale di appartenenza. Un percorso che spesso porta alla rottura, consensuale o meno.

I PIONIERI AMERICANI
Ma Salmon e compagni non sono stati i primi a compiere questi passi verso un futuro ancora poco definito. I veri pionieri – quando il nuovo giornalismo era ancora agli albori – furono otto anni fa Jum Harris e Jim VandeHei, quando lasciarono il Washington Post per fondare Politico, seguiti a ruota da Andy Sullivan, ex direttore di New Republic, autore e proprietario di The Dish, sito di blogging per abbonamento.

I MUTAMENTI ITALIANI
Quanto tempo passerà perché questi fenomeni prendano piede anche in Italia? Se si guarda al panorama editoriale in senso stretto, questo sembra ancora ingessato da vecchie logiche, come i contributi pubblici, diretti e indiretti, alla stampa cartacea a scapito di quella digitale (un nodo sul quale Formiche.net ha promosso un dibattito tra esperti e addetti ai lavori).
Eppure, anche se a rilento rispetto al mondo anglosassone, qualcosa sembra muoversi anche nella Penisola. Uno dei passi significativi è quello del Foglio. Il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara, sulla scorta di quanto già fatto da testate come Financial Times e Wapo, porterà avanti sino a fine maggio un esperimento: le notizie del giornale cartaceo saranno disponibili online solo a pagamento. Una mossa apparentemente solo economica, ma che si inserisce in una più generale discussione sul ripensamento del giornalismo, imposto da internet e dai nuovi modi di comunicare, interagire, fare informazione.


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