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Aldo Moro, un caso aperto, fra bufale e mezze verità

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una crescente messe di nuovi testimoni sul caso Moro. L’antecedente risale a circa una dozzi­na di anni fa, con la comparsa di Antonino Arconte, sedicente ex “gladiatore” (il cui nome non compare in nessuno degli elenchi conosciuti) che sosteneva di aver ricevuto, sin dal 5 marzo 1978, l’incarico di recarsi in Libano, imbarcandosi sotto il nome di G-219, per avvicinare il leader dell’Olp Yasser Arafat e chiedergli di intercedere presso le Brigate rosse, per ottenere la liberazione di Moro. E, dato che il rapimento avverrà solo il 16 mar­zo, questo fa dire ad Arconte che il servizio era al corrente dell’agguato delle Br.

Per la verità il racconto non stava molto in piedi: in primo luogo il Sismi aveva a Beirut una sua stazione diretta dal colonnello Giovannone (indicato da Moro nelle sue lettere come la persona giusta per intervenire presso l’Olp), per cui non si capisce che bisogno c’era di mandare un uomo da Roma. Poi, nel mondo dei servizi esiste l’uso di nomi di copertura che sono normalissimi nomi come Mario Rossi o Pasquale Cassiani, mentre è assoluta­mente sconosciuto (e giustamente!) l’uso di identificativi alfanumerici come G-219 che farebbero subito identificare l’uomo come una spia. Né si capisce perché bisognasse partire con tanto anticipo, visto che non si sarebbe potuto certo dire ad Arafat che era in preparazione il rapimento di Moro, ma che bisognava lasciar fare per intervenire dopo.

Sarebbe bastato mandare in aereo il messaggero nell’immediatezza del fatto. Inizialmente, l’uomo non offriva alcun ri­scontro documentale del fatto, ma fu preso sul serio anche da diversi studiosi del caso Moro. Poi negli anni seguenti ha proseguito scrivendo e sostenendo in ogni sede la sua versione sempre arricchita di nuovi par­ticolari e da qualche carta di supporto che merita debita riflessione. Ci riferiamo in par­ticolare alla lettera di affidamento dell’inca­rico, datata 2 marzo 1978. Il documento si può leggere in copia anastatica nel libro di Ferdinando Imposimato (I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, Newton Compton editore, Roma 2013) alla pagina 130.

C’è una serie di grossolani errori: non c’è numero di pro­tocollo; si parla di “informazioni di Terzo grado (dizione inesistente nella corrispon­denza dei servizi); si dice esplicitamente che Arconte appartiene a Gladio, cosa mai scritta in nessun altro documento per altro “gladiatore” e, peraltro, era in uso la dizio­ne “Stay Behind” e non Gladio; è detto quale sia il fine dell’operazione – cosa inutile se la lettera deve essere letta solo dall’interessato, cui si può dire la stessa cosa a voce, e asso­lutamente fuori dalle regole se deve essere mostrata ad altri esterni all’operazione, ecc. Ma i due errori più marchiani di questo gros­solano falso sono due. Il primo è la scritta “Documento a distruzione immediata”: mai visto un documento del genere, che non ha ragione di esistere, perché se un documen­to deve essere distrutto immediatamente, non lo si scrive proprio, per evitare che chi lo riceve poi lo conservi e non lo distrugga, così come avrebbe fatto, appunto, Arconte che oggi lo esibisce.

Ancor più esilarante è la presenza di una marca da bollo, regolarmen­te annullata con timbro, in alto a destra nel foglio: la marca da bollo è una imposta che il cittadino deve pagare allo Stato per fare domanda di qualcosa o su un titolo che lo Stato concede a un cittadino (ad esempio, un diploma di laurea), ma non ha letteralmente senso nella corrispondenza fra diversi uffici dell’Amministrazione statale (e, infatti, sfido chiunque a portarmi un altro documento del genere) e meno che mai lo ha su un docu­mento… a “distruzione immediata”!!! Nonostante questi falsi alla Totò, Arconte è stato preso incredibilmente sul serio da stu­diosi e magistrati poco avvezzi alla lettura filologica dei documenti e ancora oggi ha udienza da giornali ed editori.

Questa disinvolta prassi ha spalancato le por­te all’attuale ondata di testimoni tardivi: il brigadiere Giovanni Ladu e i suoi amici che avrebbero fatto parte di un gruppo di osservazione del covo di via Montalcini già da mol­to prima della morte di Moro; i due artificieri Vitantonio Raso e Giovanni Chirchetta, sulla presenza di Cossiga a via Fani due ore pri­ma della telefonata delle Brigate rosse che annunciava la presenza del cadavere di Moro e, più recentemente, la lettera dell’anonimo­defunto sulla questione dei due motociclisti che spararono a un teste durante il rapimen­to. Sarebbe troppo lungo passare in rasse­gna le non poche incongruenze delle loro dichiarazioni, ci limitiamo a dire che quasi tutte sono rapidamente cadute nel vuoto. E giustamente.

È bene tenere a mente che il testimone tar­divo è per definizione un testimone di cui dubitare per tre ottime ragioni: perché deve spiegare convincentemente le ragioni del suo lunghissimo ritardo, perché a distan­za di tempo il suo ricordo può essere stato corrotto da dichiarazioni di altri, letture, trasmissioni Tv, film eccetera, infine perché a distanza di decenni diventa difficilissimo trovare i riscontri a quanto dice. Questa vendemmia di testi in ritardo nasce dalla mancata soluzione del più importante delitto della storia repubblicana e dalla sua insoddisfacente sistematizzazione storica; questo apre sempre la strada a un bisogno di colmare, in qualsiasi modo, questa insoppor­tabile lacuna. E si capisce che sia in corso un nuovo tentativo di Commissione di inchiesta parlamentare sul caso: ben venga e che sia la volta buona. Ma sarebbe davvero poco serio che la base di partenza debba essere il ciar­pame di queste dichiarazioni.


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