Un intervento firmato, pubblicato in questi giorni su The Guardian, pone una domanda provocante: “Perché tutti vogliono uscire dalla City per andare a lavorare nella finanza sociale?”. La provocazione sta nell’assumere che sia in atto qualcosa di definibile come una fuga dalla capitale del credito europea (Londra), e che questa fuga sia alimentata da aspettative ‘social’.
Probabile che sia presto per parlarne in questi termini. Ma l’autore dell’articolo, Rodney Schwartz, investment banker dal 1980 per diversi dei nomi più noti del credito mondiale, segnala una circostanza che indica la forza sotterranea che sta ridisegnando la finanza. Schwartz, infatti, nel 2008 ha fondato ClearlySo, realtà specializzata nel raccogliere capitali per organizzazioni a forte impatto sociale. Ebbene, dal 2008 a oggi, racconta il manager, «abbiamo avuto notevoli difficoltà nel reclutare personale. E questo nonostante il business sia raddoppiato ogni anno, e, soprattutto, le banche londinesi stessero licenziando persone in massa a causa della crisi scoppiata con i subprime e il fallimento di Lehman Brothers». Con l’avvio del 2014, i listini hanno reso assai più consistenti le aspettative di un periodo di crescita, dunque di un nuovo periodo di ricchi benefit per i protagonisti della City. Per ClearlySo c’era da attendersi ulteriore difficoltà nell’arruolare persone con elevato know how finanziario. Invece, «non abbiamo mai avuto successo come in questi mesi del 2014 nel reclutare manager di qualità: molti di quelli che hanno fatto il salto, avevano promettenti carriere nel circuito bancario di Londra, con altrettanto promettenti prospettive di arricchimento».
Insomma, proprio nel momento in cui la finanza tradizionale esce dal tunnel, sembra avviarsi uno spostamento di risorse umane verso la finanza sociale. Schwartz elenca una serie di ragioni per spiegare questa tendenza. Compresi i sentimenti che spesso hanno fatto cambiare la vita ai manager («Voglio dare indietro qualcosa di ciò che ho avuto»). Ma c’è altro, c’è molto di più, conclude il banker. Ciò che si registra a Londra è un segnale che la finanza sociale non è più una finanza di serie B, di ripiego. «Il settore è in pieno boom, e sta cominciando a dirottare risorse di capitale e umane dal mainstream: in 30 anni, forse, sarà considerato con maggior riguardo di quanto non sia la finanza mainstream oggi».
Sono speranze? L’arco di tempo è davvero di trent’anni?
A giudicare dalle posizioni che cominciano a rilevarsi nelle roccaforti del credito mondiale, l’inversione dei ruoli sembra diffondersi assai più rapidamente di quanto Schwartz non si aspetti. I segnali arrivano da Paesi dal passato controverso in termini di trasparenza, come il Lussemburgo e la Svizzera, dove a scendere in campo per promuovere la finanza sociale sono gruppi bancari fino a ieri ritenuti distanti anni luce da certe tematiche. I segnali arrivano dai listini mondiali, impegnati a cercare standard di misurazione dell’etica per le proprie società quotate. Soprattutto, i segnali arrivano dagli investitori. Sono loro che chiedono nuove formule e nuovi modelli.
Ed è significativo che il Ftse Group, uno dei maggiori creatori di parametri e panieri di investimento al mondo, a fine aprile abbia lanciato la sua prima serie di indici che escludono società attive nel mercato dei combustibili fossili (il Ftse Developed ex Fossil Fuels Index Series). Ed è ancor più significativo che, oltre alla partnership con l’organizzazione not-for-profit Natural Resources Defense Council, l’iniziativa sia nata con l’appoggio di Blackrock, ovvero uno dei maggiori fondi internazionali, il quale ha attivato un’opzione (un prodotto strutturato) sull’indice ex Fossil Fuels.
L’ha spiegato il CEO di Ftse Mark Makepeace: «I nuovi indici sono stati sviluppati per rispondere alla domanda dei clienti per opzioni di investimento che riflettano la propria cultura e i propri valori».