È più facile fare impresa in Germania grazie a un’etica diffusa del capitalismo e all’applicazione rigorosa di regole certe? O la creatività e la flessibilità italiana nell’adattare le norme alla mutevole realtà economica è più efficace per fronteggiare la crisi e promuovere la ripresa produttiva? L
’interrogativo non ha trovato una risposta univoca nel 2˚ Forum Italo-Tedesco “Investire per crescere”, promosso all’Hotel Waldorf Cavalieri di Roma dalla Camera di Commercio italiana per la Germania.
L’unico punto fermo è la forte ostilità verso i fautori dello smantellamento dell’Euro-zona. Uno stato d’animo tanto più ricco di significato in vista di una tornata elettorale decisiva per l’avvenire dell’architettura monetaria e dell’UE, sempre più impopolari nell’opinione pubblica del Vecchio Continente.
Un’affinità profonda nel tessuto produttivo
Rappresentanti politici, imprenditori e studiosi individuano nel robusto ancoraggio alla valuta comune un baluardo per affrontare le sfide di un mercato sempre più globalizzato, che comporta un processo di investimenti infrastrutturali e di internazionalizzazione delle aziende nei due paesi fondatori dell’Unione Europea.
Realtà che presentano caratteristiche produttive analoghe nella marcata impronta manifatturiera del loro tessuto industriale, nel ruolo rilevante delle piccole e medie imprese spesso a conduzione familiare, nella storica vocazione all’export di prodotti di qualità frutto di una mescolanza fra tradizione e tecnologia.
Le cifre di una sinergia profonda
Affinità che trova riscontro in un complesso di dati. Per le aziende italiane la Germania costituisce il primo partner commerciale, mentre per quelle tedesche il nostro paese rappresenta il sesto mercato di vendite con un volume di beni importati equivalente a 43,7 miliardi nel 2013.
L’ammontare totale degli scambi ammonta a oltre 101 miliardi, mentre negli ultimi 4 anni si registra una crescita degli investimenti dei gruppi tedeschi da 30 a 33 miliardi. Cifre che acquistano valore alla luce del crollo di 472 miliardi negli investimenti a livello comunitario dall’inizio della crisi. Comparti produttivi privilegiati sono la chimica, la metallurgia, i mezzi di trasporto, l’agroalimentare, il tessile.
Le storie di successo di un proficuo interscambio
A testimoniare la possibilità e la capacità di realizzare business di lungo periodo nei due versanti della frontiera del Brennero sono i responsabili di prestigiose realtà produttive. Da Antonio Arvizzigno, vice-presidente del Centro studi sui componenti per veicoli del gruppo Bosch presente e attivo in Puglia, a Giuseppe Degrandi, amministratore delegato della multinazionale farmaceutica e bio-medicale Fresenius Kabi Italia.
Da Giuseppe Pasini, presidente del gruppo siderugico Feralpi artefice di investimenti rilevanti in Germania, a Giuseppe Tartaglione, capo delle relazioni industriali di Volkswagen, comprendente storici marchi italiani come Lamborghini, Ducati e Giugiaro. Fino a Flavio Valeri, amministratore delegato in Italia di Deutsche Band, gigante europeo nel credito per le imprese.
L’esperienza pugliese
Sono simili esperienze che spingono il governatore della Puglia Nichi Vendola ad auspicare che “nella scena politica nazionale non tornino atavici, superstiziosi e irrazionali pregiudizi anti-tedeschi, a fianco dei virus nazionalistici dilaganti in Europa”.
Il leader di Sinistra e Libertà esorta a riflettere sul percorso virtuoso intrapreso da Berlino all’indomani del crollo del Muro. E che ha emancipato la Germania orientale da un’atavica arretratezza. Un’opera, rimarca, che potrebbe costituire un modello per l’adozione di un’autentica politica industriale nel nostro Mezzogiorno.
Rivendicando la realizzazione di un ambiente favorevole agli investimenti produttivi in aree distrettuali di filiera in alternativa agli incentivi pubblici a pioggia, Vendola ricorda come oggi la Puglia esporti oltre il Brennero prodotti per 1 miliardo di euro importando beni per 700 milioni.
Lo scenario da evitare
Ma quali risultati provocherebbe sugli scambi commerciali tra i due paesi un eventuale abbandono italiano dell’euro o una dissoluzione dell’area della valuta unica?
A fornire la risposta più pessimistica e impietosa è Lorenzo Bini-Smaghi, già componente del direttivo della BCE e presidente di SNAM Rete Gas: “Rimettere in discussione l’adesione all’euro renderà inevitabile il calo degli investimenti produttivi nella penisola. Soprattutto in settori strategici come l’energia, in cui l’UE sconta uno svantaggio competitivo considerevole per via dell’assenza di shale gas e dei costi elevati dei sussidi alle fonti rinnovabili.
Un mercato energetico europeo
La strada da intraprendere, osserva l’economista, è creare un autentico mercato energetico in Europa. Per costruire le necessarie infrastrutture servirebbero 200 miliardi entro il 2030. Ma un’opera del genere produrrebbe per i cittadini del Vecchio Continente un rendimento pari a 30 miliardi ogni anno.
La crisi ucraina, rileva il presidente dell’Agenzia tedesca per l’energia Stephan Kohler, può spingere l’UE ad accelerare la creazione di reti comunitarie nel campo delle fonti fotovoltaiche, allo scopo di rendere efficiente un mercato già liberalizzato e di mettere in sicurezza i rifornimenti costruendo nuove reti di collegamento con il Nord Africa.
Alla realizzazione di tunnel elettrici e gasdotti la Germania dovrà partecipare con risorse significative visto che ne sarà tra i beneficiari. È la richiesta proveniente da Mauro Moretti, amministratore delegato di Finmeccanica e numero uno uscente di Ferrovie dello Stato, che invoca regole uniche per un effettivo spazio energetico europeo.
Un euro troppo forte e rigido
A giudizio del manager, gli ambiziosi interventi nelle infrastrutture produttive richiedono un cambiamento di rotta preliminare: “Bisognerà affrontare il problema di un euro che oggi è troppo forte nel cambio con il dollaro e lo yen, mentre la sua finalità è rispondere e adattarsi all’economia reale di tutti gli Stati membri”.
Ragionamento condiviso solo in parte da Aurelio Regina, vice-presidente uscente di Confindustria e numero uno dell’agenzia per l’internazionalizzazione delle imprese Network Globale. Ai supporter dell’abbandono dell’Euro-zona in nome di un vantaggio competitivo nelle esportazioni, l’imprenditore replica che l’unico effetto sarebbe una perdita tra il 20 e il 30 per cento del PIL per il tessuto produttivo italiano: “Capace di rinnovarsi e stabilire oggi un record nelle vendite oltre confine”.
Una riforma priva di contenuti
Argomentazioni sviluppate da Frank-Walter Steinmeier, responsabile Esteri e vice-cancelliere tedesco. Il quale porta a modello la crisi ucraina e gli enormi sacrifici sopportati dalle popolazioni baltiche nell’adozione della valuta comune per ricordare come l’euro unisca mercati e persone, contribuendo a creare le condizioni propizie al mantenimento della pace.
Memore delle riforme portate a compimento a Berlino oltre 10 anni fa ad opera di Gerhard Schröder a costo di lacerazioni nella SPD, il capo della diplomazia di Berlino esorta tutti i paesi membri a procedere nella direzione simultanea della riduzione del debito sovrano e della crescita economica.
Ai suoi occhi è necessario riformare l’architettura monetaria europea. Tuttavia l’esponente socialdemocratico non fa cenno alla modifica o al superamento delle politiche di austerità né prospetta un’innovazione federalista delle istituzioni comunitarie.
No allo sviluppo alimentato dal debito
Più esplicita la titolare della Farnesina Federica Mogherini, che ribadisce la piena consonanza tra Roma e Berlino riguardo le premesse per lo sviluppo economico. Nessun ricorso all’indebitamento per alimentare la crescita. Basta con le accuse rivolte a Bruxelles per la fragile ripresa produttiva e la persistente crisi occupazionale.
Sì a una modernizzazione della giustizia civile, alla certezza dello Stato di diritto, all’offensiva contro l’evasione fiscale, all’innovazione del mercato del lavoro, della burocrazia e delle istituzioni, agli investimenti in infrastrutture strategiche: telecomunicazioni, energia, ambiente, ricerca.
Un obiettivo di sviluppo sostenibile che “guiderà l’iniziativa italiana nel semestre di presidenza dell’Ue”. Ma che contempla per il ministro degli Esteri il rafforzamento dell’Unione economico-monetaria, bancaria, fiscale. Oltre al rilancio degli accordi commerciali con Usa e Giappone.