L’International Trade Union Confederation (ITUC), confederazione dei sindacati nel mondo, ha da poco pubblicato un rapporto sull’indice dei diritti globali, in cui ha esaminato lo stato delle condizioni di lavoro in 139 paesi, nel periodo aprile 2013 – marzo 2014.
Gli indicatori di studio sono stati 97, racchiusi in 5 classi di parametri: libertà civili, diritto di creare o di associarsi ad un sindacato, attività dei sindacati, diritto di contrattazione collettiva, libertà di sciopero. Attraverso questi parametri, è stato creato il Global Right Index (GRI), che ha classificato i paesi in un rating in cui 1 vale come “buone condizioni”, e 5 come “pessime condizioni” (esiste anche il valore 5+, applicato in situazioni di estrema criticità).
L’analisi è partita dalla raccolta di dati quantitativi (analisi delle leggi e studio di oltre 300 report di associazioni e istituti nazionali nei singoli paesi), per assegnare punteggi a ogni indicatore, che sono stati poi sintetizzati nell’indice.
Come prevedibile, dai dati presentati al congresso mondiale ITUC che si sta svolgendo a Berlino, in fondo alla lista (GRI 5+, dove si registrano continue violazioni dei diritti) si trovano Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Libia, Siria, Palestina, Ucraina. In cima (Index 1, saltuarie violazioni) stanno invece 18 paesi, alcuni tra i più sviluppati, come Germania, Francia, Paesi Bassi, Svezia, Danimarca, ma anche altri come l’Uruguay, dove il presidente José Mujica sta lavorando molto sui diritti civili, il Togo, la Slovacchia. Anche l’Italia rientra in questo rating.
La sorpresa, anche se relativa, è l’assenza dei colossi economici dalle fasce alte: non tanto nel caso della Cina, da poco diventata prima economia del mondo, che in fin dei conti conferma la carenza di diritti di cui spesso viene incolpata, raggiungendo un valore di 5; stesso discorso vale per l’India. Ma anche gli Stati Uniti, regno delle libertà e del diritto, non salgono più su del valore 4 (violazioni sistematiche, unica nazione del Nord-atlantico a posizionarsi così in basso, in compagnia di Kenya, Perù, Panama, Sierra Leone e Thailandia) e la Gran Bretagna, che si ferma a 3 (violazioni regolari dei diritti). A confermare l’analisi arriva il mondo reale: pochi giorni fa dall’America è partito il più grande sciopero dei lavoratori dei fast food, coinvolgendo 150 città statunitensi e 30 paesi diversi. L’obiettivo: protestare contro la mancanza di sindacalizzazione (uno dei principali problemi che ha portato gli Stati Uniti a raggiungere un valore di GRI così alto) e richiedere d’intervenire sui bassissimi salari. Quello del salario minimo, è stato recente argomento di un braccio di ferro tra il Congresso e il presidente Obama: l’Amministrazione aveva lavorato per innalzare il tetto federale, ma l’opposizione repubblicana è riuscita, alla fine di aprile, a bloccare in Senato la riforma.
Sharan Burrow, segretario generale ITUC ha fatto notare a tal proposito che «il livello di sviluppo di un paese, non è un forte indicatore sul rispetto di condizioni di lavoro dignitose».
Dai dati, si apprende che nel corso dell’anno passato almeno 35 governi hanno disposto provvedimenti di arresto come risposta per le richieste di aumento dei diritti; in nove addirittura si sono verificati episodi di sparizioni sospette. In 57 sono stati eseguiti licenziamenti e sospensioni dirette verso quei dipendenti che avevano tentato di avviare negoziati.
Una delle condizioni peggiori, a parte quelle di diversi paesi inseriti nella fascia “5+” in cui i conflitti in atto hanno portato alla rottura dello stato di diritto (è il caso di Siria, RCA, Libia), si registra in Qatar. All’investimento di 100 miliardi di dollari, stanziato dall’emiro al-Thani per rivoluzionare le infrastrutture in vista dei Mondiali di calcio del 2022, non fanno seguito l’evoluzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori. Secondo le ultime stime, nel paese sarebbero arrivati circa 2 milioni di operai migranti, per lo più da paesi poveri come Nepal e Bangladesh, ma anche dall’India. Il sistema di lavoro kafala, permette ai datori di confiscare i passaporti obbligando i dipendenti a restare nel paese (secondo Amnesty International circa il 90% dei lavoratori si trova in queste condizioni), in una condizione che si avvicina molto allo schiavismo. Oltre per incidenti (le condizioni minime di sicurezza spesso non vengono rispettate), le morti sono dovute a malattie da sovraffollamento (nelle baracche insalubri in cui sono costretti a vivere) o per insufficienza cardiaca dopo stremanti turni di lavoro, all’esterno sotto il caldo cocente, spesso senza accesso all’acqua potabile.
Nota: in una precedente versione di questo post, il Global Right Index era stato definito “GCI”. L’acronimo è, ovviamente, “GRI”.