Mi accingo a scrivere qualche considerazione sul “caso Moro” nelle ore in cui i quotidiani e i Tg danno voce a un premier che non perde mai l’occasione di stare zitto e che, questa volta, ha espresso – con il suo fare da ragazzino prepotente – l’intenzione del suo governo di dar corso a una ‘’lotta violenta’’ contro la burocrazia. Renzi non è nuovo a usare (a vanvera, secondo me) parole forti contro persone che – bene o male – sono al servizio dello Stato. Si è mai sentito un premier definire “mandarini” gli alti dirigenti della Pa e i manager pubblici, accusandoli in pratica di rubare quei trattamenti economici loro riconosciuti da provvedimenti legittimi assunti nelle sedi competenti?
Quando si arriva, però, a evocare la “lotta violenta” si passa il segno di un normale vivere civile e, diciamolo francamente, si arma la mano di un qualunque piccolo evasore pizzicato da Equitalia perché si senta legittimato a entrare in un ufficio tributario e a sparare al primo impiegato che incontra. Oppure si incoraggia un emulo di Luigi Preiti a farsi giustizia delle presunte angherie subite ferendo un sottufficiale dei carabinieri in servizio. Ma soprattutto si indica, dall’osservatorio di Palazzo Chigi, un simbolo da colpire – la burocrazia, appunto – a quei gruppi eversivi che (si leggano i rapporti pubblicati dai servizi) attendono, per ora nell’ombra, l’occasione propizia per scendere in campo. Quando Aldo Moro venne rapito e la sua scorta fu massacrata (si parlò allora di “potenza geometrica” del commando brigatista che agì in Via Fani) io ero già un uomo fatto.
A 37 anni, con un figlio di 10, avevo già ricoperto e stavo ricoprendo importanti incarichi di direzione nella Cgil. Quella mattina, stavo a casa mia a Bologna perché ero indisposto. Ricordo ancora che mi telefonò sconvolto un collaboratore il quale mi annunciò che Moro era stato sequestrato. Fu tanto lo stupore che non pensai subito al presidente della Dc, ma a Sandro Moro, un giovane funzionario socialista che lavorava nella zona industriale di S.Viola. E non riuscivo a capacitarmi di che cosa mai potessero volere da lui le Br. L’interlocutore telefonico si accorse dell’equivoco e chiarì, a me ancora incredulo, la portata dell’evento e quale fosse il vero Moro.
Ho vissuto così tutte le vicende di quelle tragiche settimane, ho assistito al dibattito che seguiva il ritrovamento di una delle tante lettere che Aldo Moro, dalla prigionia, inviava a varie personalità, sforzandosi – con la lucidità che lo contraddistingueva – di aprire e tenere aperto un filo di dialogo senza che i suoi carcerieri riuscissero ad accorgersene e a interpretarlo. Ricordo le assemblee nelle fabbriche, con gli operai piuttosto freddi nel condividere l’esigenza di solidarietà: quando per decenni la lotta politica viene condotta demonizzando il proprio avversario (come era solito fare il Pci), diventa difficile intimare il “contrordine compagni” in nome della solidarietà nazionale.
Del resto, anni dopo, una ricca letteratura ci ha spiegato che i terroristi non erano, in quegli anni, “quattro gatti” seguaci di un pensiero folle, ma avevano strutture d’appoggio in quasi tutte le grandi fabbriche, dove i “brigatisti” non erano degli sconosciuti, ma personaggi ben noti (sicuramente a livello del sospetto, almeno) agli attivisti sindacali. In tanti allora preconizzavano l’infame slogan “né con lo Stato né con le Br”. Solo Guido Rossa ebbe il coraggio di sporgere denuncia e pagò questo gesto con la vita. Non dimenticherò mai il giorno del ritrovamento del suo cadavere rannicchiato nel portabagagli di un’auto parcheggiata a poche centinaia di metri tra piazza del Gesù e le Botteghe Oscure, le sedi storiche della Dc e del Pci, oggi dismesse perché troppo costose per inquilini che hanno cambiato non solo vita, ma anche identità, alla stregua di quelle famiglie che, per un motivo di sicurezza, sono sottoposte a un programma di protezione.
E che dire del dibattito sulla trattativa, stoppato dalla comune intransigenza dei due maggiori partiti allora legati dall’esperienza del governo di solidarietà nazionale? O della maestosa orazione funebre di Paolo VI, il pontefice che, nei giorni precedenti, aveva avuto il coraggio di rivolgere un appello “agli uomini delle Brigate rosse” affinché risparmiassero la vita di Moro? Che altro potrei aggiungere? Il caso Moro è un vaso di Pandora di misteri che forse non saranno mai svelati. Certamente di quell’agguato non furono protagonisti soltanto quattro o cinque scalzacani che fino ad allora si erano limitati a sparare alle spalle (ucciderne uno per educarne cento) alle loro vittime disarmate.
Quando provarono a rapire il generale Dozier dovettero misurarsi con dei professionisti che non esitarono a scovarli e ad ammazzarli. Nella vicenda Moro rimane inspiegabile la storia di quei poliziotti che ricevettero una soffiata (forse dalla malavita romana, non certo dagli spiriti), si recarono nella via e nello stabile dove è rinchiuso il presidente, bussarono alla porta e se ne andarono perché nessuno aprì. Quel covo, subito abbandonato, venne scoperto tempo dopo in seguito a una perdita d’acqua.
Certo, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro hanno cambiato la storia del Paese. L’esperienza della solidarietà nazionale si esaurì poco dopo. E non ha mai più ritrovato quel respiro, quella durata e quei risultati che ebbe allora in una situazione gravissima per il Paese, divorato da un’inflazione a due cifre e dal terrorismo. Nel disegno di Moro l’incontro tra la Dc e il Pci rappresentava innanzitutto uno scambio di reciproche legittimazioni: ognuno dei due partiti avrebbe consentito all’altro di rimanere se stesso, senza doversi sottoporre a cambiamenti allora tanto dolorosi da risultare impraticabili.
Così la Dc avrebbe garantito il Pci sul versante delle alleanze internazionali, e, a sua volta, sarebbe stata garantita dal Pci sul piano interno per affrontare la durezza delle necessarie riforme economiche e sociali (non a caso i sindacati vararono la c.d. strategia dell’Eur in sintonia con l’impostazione della solidarietà nazionale). Oggi tanto la Dc, quanto il Pci non esistono più. La prima è stata “processata nelle piazze” e nei tribunali, perché non c’era più Moro a difenderla. Il secondo ha dovuto legittimarsi in proprio. Ma per poterlo fare ha atteso che crollasse il Muro di Berlino, quella cortina che in modo invisibile aveva attraversato e diviso anche l’Italia. Ed è stato costretto persino a cambiare nome, fino ad accettare, adesso, di “morire democristiano”.