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L’uccisione del capo jihadista nel Sinai

Shadi el-Menei, capo del gruppo jihaidsta Ansar Beit al-Maqdis, è stato ucciso dalle forze di sicurezza egiziane durante la notte scorsa.

Secondo le notizie diffuse da funzionari militari, insieme a el-Menei sarebbero stati uccisi altre tre compagni. AFP ha raccontato, citando fonti anonime, che gli uomini sarebbero stati sorpresi dall’esercito in procinto di effettuare un sabotaggio ad un gasdotto nel Sinai.

Ansar Beit al-Maqdis, organizzazione d’ispirazione salafita e qaedista, è attiva nelle aree orientali e nella penisola del Sinai, fin dai tempi della rivoluzione egiziana del 2011 (conosciuta anche come “Ansar Gerusalemme”, qualcosa come “Partigiani di Gerusalemme”), ma ha avuto un’escalation di attività dopo il rovesciamento dell’ex presidente Morsi nel luglio 2013.

È considerata responsabile di numerosi attacchi (autobomba, azioni kamikaze, assalti, assassini), che hanno portato all’uccisione di oltre 200 persone negli ultimi dieci mesi, molte delle quali militari egiziani.

Nel febbraio scorso, il gruppo ha colpito un autobus di turisti nei pressi della città di Taba (Sinai del sud) uccidendo tre sudcoreani e aprendo una nuova stagione di operazioni: colpire l’attuale governo, considerato «apostata» (massima condanna del mondo jihadista), attraverso uno dei principali asset, quello del turismo. Nell’occasione la Farnesina, visto l’aggravarsi dell’emergenza, diffuse “lo sconsiglio” per i viaggi in Egitto.

Nonostante la recente costituzione, al-Maqdis è emerso in modo prorompente, spostando le proprie attività fino al Cairo: lo scorso 5 settembre tentarono di assassinare il ministro degli interni Mohamed Ibrahim, successivamente colpirono a morte il capo dell’ufficio tecnico del ministero degli Interni.

Il gruppo, inserito il 9 aprile nelle liste terroristiche del Dipartimento di Stato americano, è diventato problematico per l’intera regione. Gli attentati di Taba portarono Israele a chiudere le frontiere: convinzione maturata anche dopo il tentato attacco ad Eliat, quando (era il 31 gennaio) gli uomini di el-Menei lanciarono un razzo verso la città turistica israeliana, che non fece danni grazie all’intercettazione del sistema di difesa Iron Dome.

Le armi viaggiano dentro e fuori l’Egitto: secondo molti analisti, i rifornimenti ai jihadisti del Sinai potrebbero essere garantiti dalla Fratellanza Musulmana, ma, almeno ufficialmente, i rapporti non sarebbero più troppo rosei: la critica dei combattenti radicali, si lega alla decisione dell’Ikhwan di partecipare alle elezioni.

Più probabile, invece, che le armi seguano rotte da fuori confine: per esempio attraverso il Sudan o più facilmente dalla Libia. Alla fine di gennaio al-Maqdis rivendicò l’abbattimento di un elicottero militare egiziano nel Sinai: a quanto pare dalle ricostruzioni, il missile terra-aria fu lanciato da un Manpad libico (sembrerebbe un SA-7) finito in mano ai terroristi egiziani.

Gli arsenali di Gheddafi, si sa, sono stati nel tempo depredati e le armi svendute al mercato nero. In Libia, come si è visto con i fatti di questi giorni, regna il caos e una situazione di tale ingovernabilità nel corso degli anni, ha permesso traffici di ogni sorta – attraverso i quali, le milizie libiche si sono potute finanziare, permettendo inoltre affiliazioni e collaborazioni nell’azione jihadista.

In questo la lettura dell’avvio dell’operazione “Dignità” che il generale Haftar sta compiendo tra Tripoli e Bengasi, sembra essere parte di un piano di più ampio carattere geografico: anche se l’Egitto ha negato ogni coinvolgimento, per il momento. (Fino al voto della prossima settimana, almeno).



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