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Tutti gli effetti nefasti di una Libia allo sbando. Parla Mario Sechi

La Libia ripiomba nel caos. Ieri, con un attacco armato alla sede del Parlamento, alcune forze guidate dal generale in pensione Khalifa Haftar hanno provato a realizzare un “colpo di Stato”. Il bilancio è di decine di morti. E mentre gli scontri proseguono, è ancora nebbia sul ruolo dell’Occidente in una crisi che l’Italia rischia di pagare a caro prezzo.

Ecco retroscena e scenari in una conversazione con il giornalista e saggista Mario Sechi, già direttore del Tempo, ora editorialista del Foglio.

Sechi, cosa accade in Libia?
La situazione è sotto gli occhi di chi la vuol vedere. Dopo settimane di silenzio in cui solo poche testate, tra le quali Formiche.net, hanno parlato di ciò che covava nel Paese, è accaduto l’inevitabile. Il Paese ha subito un vero e proprio colpo di Stato ad opera di un generale “in pensione”, Khalifa Haftar.
Eppure le avvisaglie c’erano tutte: violenza crescente, contestazioni immediate nei confronti del nuovo premier, lo spostamento di un contingente di marine dalla Spagna verso la più vicina Sicilia, nella base di Sigonella.

Quali i motivi di questo golpe?
Alla base c’è l’incertezza in cui versa il Paese dalla caduta del regime di Gheddafi. La nazione è ostaggio dell’ingovernabilità, che come ha scritto il Daily Beast ne sta facendo “una Woodstock per i terroristi“. Come nel 2011, l’epicentro del caos libico è stato Bengasi, dove perse la vita l’ambasciatore americano Christopher Stevens. Una ferita che brucia ancora a Washington e che sta avendo anche riflessi politici sul fronte interno. A Bengasi è scoppiata la defezione di una frangia dell’esercito, quella comandata da Haftar, che attacca le fazioni islamiste. La sensazione di déjà vu è molto forte.

A cosa si riferisce?
Giochiamo con delle ipotesi, facciamo uno scenario da fiction: poniamo il caso che il generale Haftar – che in passato ha abitato a un tiro di schioppo da Langley, quartier generale della Cia – sia al servizio degli americani. E ipotizziamo che, con il loro supporto, si sia messo in testa di deislamizzare il parlamento della Libia, allo stesso modo in cui in passato si provò a “deebathizzare” l’Iraq di Saddam. Ora, come sappiamo, la religione può essere una componente molto forte di stabilità, ma anche di tragica divisione. In Iraq questo piano portò alla proliferazione del terrorismo e non c’è ragione di credere che questo non accada anche in Libia. Non solo: le reazioni di una lotta all’Islam portata avanti in questo modo coinvolgerebbero altri Paesi come l’Iran, per citarne uno, con riflessi transnazionali tutti da scoprire. Quel che accade a Tripoli, inoltre, mi ricorda molto il modello egiziano, una sorta di Mubarak 2.0. Qual è la differenza tra l’ex dittatore egiziano e Al Sisi? O con quel che accade in Tunisia? In tutti i casi siamo di fronte a leadership autoritarie e militari che puntano a un allontanamento della componente islamica dalla politica. Una strada molto impervia da percorrere e potenzialmente pericolosissima.

L’assenza di un ruolo italiano nella crisi ucraina e in quella libica, rivalutano la politica estera dei governi di Silvio Berlusconi?
Berlusconi, come tutti i capi di Stato, sarà giudicato dalla Storia. Posso senz’altro dire che in passato c’è stato doppiopesismo. Se tutto ciò che accade oggi fosse successo con un altro governo di qualunque colore, ci sarebbe stato ben altro clamore. Ma è indubbio che la politica estera di Berlusconi avesse tre direttrici che consentivano al nostro Paese di essere coperto su diversi fronti, ma anche di conservare una discreta autonomia: guardava al Mediterraneo con la Libia, ad Est con la Russia e oltreoceano a Washington. Ricordo che diversi anni fa, durante un convegno a Washington, mi trovai a difendere la linea di realpolitik del governo italiano, ma un’esponente della diplomazia americana, Victoria Nuland (oggi vice del segretario di Stato John Kerry, ndr), storse il naso, segno che qualcosa negli equilibri del mondo stava già mutando. Lo schema classico est-ovest si sfaldava, come oggi testimoniano i dati sulla spesa militare crescente in Eurasia. La politica mondiale si è spostata a Oriente e questo cambiamento a produrre le crisi recenti.

Ci sono similitudini tra la crisi libica e quella ucraina?
Intanto delle analogie metodologiche. In entrambi i casi le azioni dell’Occidente hanno generato una reazione; e in tutti e due i casi l’incertezza assoluta sull’uso delle urne come bacchetta magica per risolvere la situazione. Votare fa bene, ma bisogna vedere in che condizioni. Oggi ho qualche perplessità sull’esportare la democrazia così come noi la intendiamo in Paesi che hanno esperienze e tradizioni diverse. L’esempio dell’Afghanistan è esemplare. Washington ritiene di poter risolvere molti problemi attraverso il voto popolare. Un auspicio lodevole, per carità, ma che non sempre rappresenta la soluzione dei problemi. Vi sono poi dei comuni risvolti energetici. Oltre alle similitudini sul piano strategico, le due crisi hanno un link: il petrolio. La produzione di greggio in Libia è ben lontana dalla dimensione ottimale. La crisi in Ucraina, invece, dove c’è il gas (o meglio, passa il gas russo), a incidere è l’aumento del premio di rischio geopolitico, una voce presente nel costo finale di un prodotto energetico. Non credo che Putin invaderà mai le regioni filorusse a est, ma tutto ciò fa schizzare in alto il prezzo della materia prima, in contrasto con le previsioni recenti che lo davano in ribasso. Il Brent è salito sopra i 110 dollari al barile e molti analisti sostengono che l’epoca del ribasso è già finita. Vedremo queste crisi, per ora, hanno un solo vincitore: gli speculatori che guadagnano tra una brusca oscillazione di prezzo e l’altra.

L’Italia è quella che ha maggiormente da perdere da una Libia non pacificata e gli Usa ce lo hanno indirettamente ricordato. Perché Roma è così riluttante ad assumere un ruolo in questa crisi? 
L’amministrazione Obama non vede l’ora di scaricarci la patata bollente, ma noi non abbiamo nessuna intenzione di prenderla tra le mani. Le ragioni sono molteplici: per stabilizzare il Paese serve un’opzione militare con tutti i costi e le incognite del caso (soldati Nato o Onu? E chi ha voglia di mandare truppe su un campo così “caldo”?. E poi la Libia è un Paese straordinariamente complesso e climaticamente ostile, composto da tribù in guerra perenne tra loro e un vasto deserto che è terra di tutti e nessuno. Restano ovviamente altre carte da giocare, ma servono buona volontà, azioni concrete e meno retorica. L’Italia ha qualcosa da dire? E se sì, quale modello propone per tirare la Libia fuori dal caos? Domande che finora non hanno trovato risposta.

Cosa potrebbe fare l’Italia?
Innanzi tutto dovrebbe abbandonare la strategia del silenzio e dei grandi proclami. Silenzio quando ci sono fatti imbarazzanti (e questi lo sono); proclami quando non si ha un piano per affrontare la crisi (e per ora non se ne vede l’ombra). Mi riferisco alle recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri Federica Mogherini e non solo. Non c’è bisogno di nuove conferenze internazionali da organizzare a Roma, ma serve che l’Italia interpreti un ruolo di interlocutore attivo che può favorire un dialogo nazionale tra le diverse fazioni. Lei pensa che questo lavoro possa essere fatto dagli Stati Uniti? Washington fa bene altre cose, ma non il nation building in quelle aree del mondo. Per evidenti ragioni storiche, culturali ed economiche siamo gli unici in grado di farlo. E questo lavoro si fa in Libia, non altrove.


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