Sono tutti d’accordo sul fatto che finora nessuna legge è stata in grado di garantire la piena trasparenza delle donazioni alla politica. Nemmeno negli Stati Uniti, la patria della total disclosure. Per cui si finisce sempre per concludere che i dati in nostro possesso sono parziali, mentre le somme che sfuggono al monitoraggio dell’opinione pubblica sono cospicue.
Di qui una proposta shock di due stimati professori di Yale, Ian Ayres e Bruce Ackerman. Proposta così semplice da sembrare imbarazzante: via ogni pretesa di trasparenza. Rendiamo segrete tutte le donazioni alla politica. Proposta imbarazzante, forse, ma non stupida. Ayres e Ackerman ne parlano per la prima volta in un libro del 2004, Voting with Dollars (QUI). Questo, in sintesi il loro pensiero:
(1) Tanto per cominciare, si introduce il principio di segretezza per tutte le donazioni elettorali. Si istituisce un trust che raccoglie i soldi e, a intervalli regolari, li destina ai beneficiari. Costoro non potranno sapere chi ha dato i soldi, ma solo quanti soldi sono stati donati. Si prevede anche un limite entro il quale il donatore pentito può, se lo desidera, ritirare la donazione.
(2) Ogni votante iscritto (in America per votare è necessario registrarsi) riceve un “voucher” di 50 dollari a elezione, da destinare ai candidati. Il voucher – che Ayres e Ackerman chiamano Patriot Dollars – servirebbe a due scopi. Anzitutto, dare una chance in più ai candidati meno conosciuti, la cui unica speranza di essere eletti è conquistare la fiducia delle comunità locali. Inoltre, dare una chance al cittadino medio, provando a renderlo meno insignificante rispetto alle grandi corporations o ai più ricchi, che ovviamente donano somme molto più alte.
Com’è ovvio una proposta così radicale ha attirato critiche feroci. Di due tipi:
(1) La prima, accademica. Altri due professori, Pamela Karlan e Richard Briffault, sostengono che l’idea è semplicemente irrealizzabile. Perchè, sostengono i due, finché parliamo di donazioni di importo contenuto non c’è modo per il donante di dimostrare al ricevente che è stato proprio lui, e non un altro, a donare quella cifra. Ma se parliamo di cifre a sei zeri, non c’è dubbio che il donante possa far sapere al beneficiario di essere stato l’autore della donazione, vincolandolo moralmente. A questa critica Ackerman e Ayres rispondono con due correttivi. Il primo è quello dei limiti alle donazioni (in vigore anche con il sistema attuale). Il secondo, più originale, è la creazione di un algoritmo che regoli la distribuzione delle donazioni dal trust ai candidati, mantenendola costante ed evitando “picchi”.
(2) La seconda critica è più generica, e viene dai (tanti) fautori della trasparenza. Una idea simile, se attuata, ucciderebbe qualsiasi speranza di rendere conoscibili i rapporti istituzioni-imprese. Sarebbe la morte della politica alla luce del sole. Anche per loro i due professori di Yale hanno una risposta pronta. Ricordano che fino alla fine del 1800 nella quasi totalità delle democrazie occidentali il voto era pubblico, e remunerato. Il votante si recava nella “circoscrizione” di appartenenza, riceveva tante schede quanti erano i partiti in lizza e, di fronte agli scrutinatori, ne inseriva una nella cassetta elettorale. Poi, prima di andar via, riceveva un tacchino in regalo. Con il voto segreto si è prodotto un calo medio del 10/12% dei votanti, scremando coloro che votavano solamente per avere il tacchino. In altre parole, dicono i due professori, la segretezza incentiverebbe le donazioni veritiere, eliminando quelle “di facciata”.
Non ci crederete ma qualcuno ha provato a mettere in pratica l’idea di Ackerman e Ayres. In Cile da dieci anni è in vigore un sistema di donazioni politiche (parzialmente) segrete. Risultato: circa il 50% delle donazioni ai candidati cileni sono segrete. Peccato che ne beneficino solo alcuni candidati. Per la precisione, si avvalgono del sistema di donazioni segrete il 9% dei candidati di centro-sinistra, contro il 60% di quelli di centro destra. Qualcosa, evidentemente, non ha funzionato (QUI c’è uno studio approfondito sulla questione).
La proposta sembra destinare a restare dov’è: parte di un dibattito pubblico e scientifico sempre più acceso, e sempre meno concludente. Continuiamo a rincorrere la metafora del giudice Bradleis – “Sunlight is said to be the best of disinfectants; electric light the most efficient policeman” – senza riuscire a raggiungerla.