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Vi svelo i molti piani e i troppi sogni di Marchionne. Parla Ugo Bertone

Fca

È possibile sopravvivere e promuovere la rinascita della produzione italiana, generare profitti e posti di lavoro, puntando su un mercato di qualità e rompendo una lunga tradizione di prodotti di massa? Ruota attorno a questo interrogativo la strategia prospettata nel Piano industriale di Fiat-Chrysler Automobile per gli anni 2014-2018.

Per valutare la forza e gli spazi di realizzazione dell’ambiziosa scommessa lanciata da Sergio Marchionne, Formiche.net ha sentito Ugo Bertone, giornalista e analista economico del Foglio, di Libero e di Panorama, con una lunga esperienza alla Stampa e a Borsa & Finanza.

Come giudica il progetto industriale di Fca?

Il punto di forza è la capacità e il tempismo nel cavalcare un atteggiamento favorevole dei mercati finanziari e degli Stati Uniti verso il made in Italy. Molti dubbi degli analisti erano legati all’efficienza e alla concreta possibilità di realizzare utili da parte degli impianti italiani. Focalizzando il core business del gruppo sulla creazione di vetture di fascia alta che richiedono soprattutto competenze e possono essere costruite in siti produttivi non grandi, l’amministratore delegato del Lingotto ha buon gioco nel rivendicare la credibilità della parte italiana del progetto.

Qual è il punto debole del piano?

Marchionne si è rivelato attendibile nel rispettare gli obiettivi prefissati negli Usa. Molto meno lo è stato nella tabella di marcia stabilita in Italia. Fiore all’occhiello della strategia industriale riguarda il rilancio dell’Alfa Romeo. Ma si tratta del quarto progetto in 10 anni. E i programmi precedenti sono falliti, come il tentativo di penetrazione in Cina e nei mercati asiatici.

Perché?

Le ragioni di simili sconfitte possono essere attribuite alla recessione, ma anche alla fragilità manageriale e finanziaria dell’azienda. Troppo caratterizzata dalla tentazione di bruciare le tappe senza pazienza e rigore tecnologico.

Le cifre e i target forniti dal manager italo-canadese sono realistici?

La quotazione del gruppo automobilistico a Wall Street è una necessità da mettere in atto prima possibile. Ma non so se l’obiettivo verrà realizzato entro il 2014. L’importante è che le macchine producano utili. Pertanto bisogna stabilire di quale forza finanziaria potrà disporre Fiat per sostenere il progetto nel tempo. Il programma relativo ad Alfa Romeo è credibile con i 5 miliardi di investimenti previsti. Tuttavia i profitti arriveranno più tardi. Prima è bene spendere, commercializzare, promuovere una strategia di marketing e far conoscere il brand. Audi ha impiegato 10 anni nel consegnare il primo utile, e oggi foraggia l’intera galassia Volkswagen.

Ritiene eccessivo il debito netto industriale di Fca, salito a 10 miliardi a fine marzo?

È un passivo elevato. Tuttavia bisogna tenere conto che il mercato europeo comporterà oneri e costi più ridotti nei prossimi anni. Non dimentichiamo poi che nel 2013-2014 Fiat è stata l’unica azienda del Vecchio Continente in grado di raccogliere 10 miliardi nei circuiti obbligazionari. Se però il livello del debito si rivelerà intollerabile, allora si renderà necessario un aumento di capitale da parte degli azionisti. Operazione che già ora potrebbe essere approvata senza grandi problemi.

È pensabile per il 2018 un utilizzo degli stabilimenti italiani al 100 per cento?

Sarebbe un sogno, perché oggi siamo a un drammatico e indecoroso 45 per cento. Ricordo che per anni l’ad di Fiat ha cercato invano di convincere gli altri produttori europei a ridurre loro capacità produttiva nel Vecchio Continente. Adesso invece è l’unico manager a sostenere di poter far lavorare tutti gli impianti industriali. La realizzazione della scommessa passerà per l’efficienza e la qualità dei veicoli.

Il Lingotto di Marchionne ha ricevuto negli anni considerevoli risorse pubbliche.

Sì, ma non si tratta dei vecchi aiuti di Stato. Parliamo della cassa integrazione, un ammortizzatore sociale senza il quale sarebbe stato più facile licenziare. Uno strumento certo poco efficiente, che però rappresenta una disfunzione delle istituzioni. Le quali dovrebbero affrontare l’emergenza nazionale rappresentata da una Torino che ha perduto il cervello del Lingotto. E temo che il polo Alfa-Maserati si sposterà verso Modena. Lo Stato potrebbe mobilitare capitale privato e pubblico con incentivi fiscali verso altre priorità produttive. Chiedendo a Exor, la cassaforte degli Agnelli, di investire risorse in comparti differenti da Fiat.

Il governo dovrebbe assumere iniziative sul fronte italiano della strategia Fiat-Chrysler?

Sarebbe importante che vi fosse non un’improbabile politica industriale, ma un terreno di agevolazioni per incentivare nel nostro Paese l’attività di ricerca sulle autovetture. Attualmente molta progettualità nello sviluppo dei motori è in Brasile e negli Usa. Penso a sgravi fiscali analoghi a quelli adottati nel Regno Unito, dove una tassazione al 10 per cento sui profitti da ricerca ha favorito la nascita di realtà industriali di avanguardia. Ricordo un fatto molto significativo al riguardo.

Quale?

Quando incontrai lo staff dei designer di Bmw notai che tutti parlavano un ottimo italiano, appreso nei centri di design e stile di Torino. A riprova di un patrimonio tecnologico e di un’eccellenza peculiare di casa nostra.

Quanti elementi del piano “Fabbrica Italia del 2010 sono presenti nella strategia odierna?

Quel programma fu un’iniziativa “folle” del personaggio cui piace scommettere forte, con numeri molto robusti ed esagerati. Ma apparteneva a un altro mondo, ancorato a un mercato di massa fondato sui modelli tradizionali. Grazie ad esso Marchionne riuscì a spostare l’asse delle relazioni industriali e sindacali, e a modificare l’orizzonte degli investimenti produttivi di Fiat. Operazioni che gli hanno permesso di presentarsi oggi con condizioni contrattuali ed economiche tipiche del mondo anglosassone e spagnolo.

La sterzata verso i marchi di lusso e di alta qualità è un rovesciamento della storica propensione di Fiat per la fascia media delle auto?

Assolutamente sì. E costituisce un esempio pilota per l’intero tessuto industriale italiano, dalle telecomunicazioni alla meccanica, dall’agroalimentare all’energia. Nell’economia di oggi non esiste più il “campione nazionale o europeo”. Vi sono settori in cui aziende diverse sono costrette a trovare sinergie per competere a livello mondiale. Le imprese italiane devono allearsi con partner stranieri – americani, tedeschi, nel futuro cinesi – sviluppando le nostre eccellenze riconosciute sul piano internazionale. La produzione di vetture di largo consumo da parte di Fiat e Chrysler creerà una significativa “massa critica” per puntare sui mercati di alta qualità.

Il manager italo-canadese rappresenta una rottura con il “capitalismo assistito e di relazione”?

Vi è nei fatti uno stacco totale rispetto al passato. Un tempo una corporation come Fiat presentava una struttura piramidale molto più semplice. E in un’epoca più arretrata dal punto di vista tecnologico un amministratore delegato come Cesare Romiti non poteva permettersi la guida centralizzata di Sergio Marchionne. Negli ultimi anni l’importanza del management rispetto all’azionista è molto cresciuta.



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