Le loro posizioni “ultra-liberiste” sono note da tempo, ma ciò non ha frenato Matteo Renzi dal proporli ai vertici di alcune tra le più grandi aziende controllate dal Tesoro. Alessandro De Nicola, Alberto Pera e Luigi Zingales sono i tre prof alfieri delle privatizzazioni nominati rispettivamente nei cda di Finmeccanica, Enel ed Eni.
Il trio non ha lesinato consigli allo Stato di mettere in vendita le società partecipate dal Tesoro (o almeno ampie quote di controllo), con l’intento di ridurre il perimetro della cosa pubblica, migliorare l’efficienza delle aziende, incentivare l’iniziativa privata e aprire spazi a nuovi investimenti.
Nomine, che proprio per la loro “eccezionalità”, sono state commentate positivamente anche da una “bibbia” del liberismo come il Financial Times.
La verve “rottamatrice” dei tre professori ben si concilia con lo spirito dell’esecutivo renziano e la sua mai celata ispirazione al modello blairiano di una sinistra riformista che non teme il libero mercato, ma soprattutto non viene meno a fronte dei nuovi incarichi.
Nel suo ultimo libro, “Europa o no, Sogno da realizzare o incubo da cui uscire” (Rizzoli), pubblicato solo un mese fa, ad aprile, Zingales spiega perché a suo modo di vedere tutte le società a partecipazione statale risentirebbero pesantemente di un’uscita non concordata dall’euro.
“Su contratti tra italiani in Italia, sottoposti al diritto italiano – argomenta il docente della University of Chicago Booth School of Business -, il problema è molto semplice: lo Stato italiano ha il diritto di ridenominarli tutti in lire. Potrebbe farlo con un rapporto iniziale di uno a uno, ma poi la lira si svaluterebbe rispetto all’euro di circa il 30%, quindi nel complesso il valore di questi contratti in euro si ridurrebbe del 30%.
La stragrande maggioranza del debito pubblico italiano e del debito delle imprese italiane ha queste caratteristiche.
Di conseguenza, un’uscita dall’euro dell’Italia non implicherebbe automaticamente un suo default, perché il debito pubblico verrebbe ridenominato in lire.
Non tutto il debito delle imprese italiane, però, ha queste caratteristiche. Molte grosse imprese (come Eni, Enel e Telecom) hanno emesso obbligazioni in euro alla borsa di Lussemburgo. In genere queste obbligazioni sono sottoposte al diritto inglese e l’Italia non ha nessun potere su questi contratti, quindi essi rimarrebbero denominati in euro. Per imprese con questo tipo di contratti ma con la maggior parte del fatturato generato in Italia (e quindi ridenominato in lire), l’uscita dall’euro significherebbe probabilmente il default“.
L’ex volto di Fare per fermare il declino “salva” solo il Cane a sei zampe (società nella quale è stato indicato nel cda lo scorso 15 aprile dal ministero dell’Economia), sottolineando come “per imprese con fatturato prevalentemente in euro o dollari (come l’Eni), il problema sarebbe minore perché la svalutazione della lira rispetto all’euro aumenterebbe non solo le passività (il debito), ma anche i ricavi (che rimarrebbero denominati per la maggior parte in euro e quindi tradotti in lire aumenterebbero del 30%)“.