È caduto l’impero spagnolo. Non è durato molto, in verità: tra il 2010 ed il 2012, una Coppa del Mondo e una europea. Le squadre di club decisamente meglio della nazionale. La fantasmagorica Olanda ha posto fine al dominio delle “furie rosse”, ma non ha mai vinto niente di significativo nei tornei internazionali, a parte il campionato europeo del 1988 cui vanno aggiunti onorevoli piazzamenti nei mondiali.
Come la Spagna, tuttavia, ha segnato una stagione affatto breve nella innovazione del football europeo, dal tempo della “rivoluzione” del “calcio totale” guidata da Cruijff al magico trio Gullit, van Basten, Rjikard. In Brasile gli “arancioni” di van Gaal sono pronti a dimostrare quello che valgono. E valgono moltissimo. Il volo d’angelo con cui van Persie ha aperto le marcature è il prologo di uno strepitoso attacco a tutti i blasonati. Ci credono. E vedendoli all’opera non si può non essere d’accordo con chi li ritiene tutt’altro che outsider.
Sono olandesi volanti guidati dal citato goleador e da quel concentrato di potenza e di classe che è Robben. Dopo la performance di Salvador si sono assicurati un posto in prima fila nel paradiso del calcio. Proprio a Salvador, guarda caso, conquistata da intraprendenti ed un po’ pirateschi avventurieri dei Paesi Bassi circa quattro secoli fa e poi sottrattagli da un’armata ispano-portoghese… Vendetta storica? Chissà. Se il calcio è una “guerra simulata” è possibile che nello spirito degli olandesi moderni vivano i sentimenti ed i risentimenti di quelli d’antan che nessuno più ricorda neppure a Salvador. Ma in loro, in quelli che combattono sul terreno erboso per un primato comunque stellare, vive – ne sono certo – lo spirito di un conterraneo che, inconsapevolmente, li accompagna. Guglielmo il Taciturno D’Orange (1583-1584), guidò gli olandesi con successo nella guerra di indipendenza contro gli spagnoli. Il suo motto era: “Non c’è bisogno di sperare per intraprendere, né di vincere per perseverare”. È dal 30 aprile 1905, quando esordì vincendo per 4-1 contro il Belgio ad Anversa, che la nazionale olandese, tra alti e bassi, incurante delle molte delusioni (su tutte le sconfitte nelle finali di Coppa del Mondo nel 1974, 1978 e 2010), non ha mai abbandonato un gladiatorio – ed elegante – atteggiamento di intrapresa sfoderando, in alcune stagioni, un’inarrivabile tecnica calcistica sfiorante il sublime. Accadeva ieri. Si ha l’impressione che stia nuovamente per accadere dopo quanto visto contro la Spagna.
Gli uomini del marchese Del Bosque sono sembrati prigionieri di un sogno. E per mezz’ora dietro le sue sbarre si sono mossi. Quando hanno realizzato che non erano altro se non pulcini bagnati di fronte a veri colossi del calcio hanno malamente mollato rimediando la terza più pesante sconfitta della storia nazionale: contro il Brasile nel 1960 presero sei gol e ne fecero uno soltanto; contro la Scozia altri sei, mentre loro si fermarono a due e il 13 luglio ben cinque che resteranno impressi nella memoria delle generazioni che verranno, mentre cadevano come birilli sotto l’incedere di un’Armada davvero invincibile.
Comunque vada, un ciclo si è chiuso a Salvador e nessuno sa dire quando se ne riaprirà un altro.
Insieme con quello spagnolo si è chiuso pure il ciclo dei Leoni d’Africa, capitanati da Samuel Eto’o, quello che paga la sua suite tremila euro al giorno e sostiene le rivendicazioni sindacali dei giocatori camerunesi dall’alto della sua fama. Erano l’avanguardia del nuovo calcio del Continente nero; pietosamente arresisi a messicani che hanno la stessa fame di vittoria che una volta avevano loro. Li vidi giocare il 23 giugno 1990 a Napoli contro la Colombia: vinsero 2-1, dopo aver sbaragliato l’Argentina di Maradona campione del mondo nella partita d’esordio. In quel quarto di finale, a cui assistevo, entusiasmarono e commossero, praticavano un calcio spettacolare ed eroico nel senso del sacrificio individuale e collettivo, avevano la forza dei leoni con i quali convivevano ed un condottiero che si chiamava Roger Milla, unanimemente riconosciuto come “il calciatore africano del secolo”. Promesse svanite. Nelle suite pagate con i soldi di un calcio senza più patria.
E l’Italia? Qualsiasi cosa si dica oggi è meno che banale. Il mio augurio nel ricordo di un anniversario. Ottant’anni fa gli azzurri vincevano il loro primo Mondiale. Era il 10 giugno 1934. L’allenatore-oracolo si chiamava Vittorio Pozzo. Rivinse quattro anni dopo. L’azzurro colorava il mondo. E i ragazzini recitavano a memoria quella formazione che chi scrive, dopo tanti anni la ricorda ancora così come la imparò bambino da suo padre: Combi; Monzeglio, Allemandi; Ferraris, Monti, Bertolini; Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari, Orsi.
Che gli spiriti di Manaus li richiamino in vita contro i bianchi inglesi cui pure non manca il valore.