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Tutti i peana (e le poche critiche) a “Gomorra. La serie”

Fatta salva per i fan la possibilità di rivedere in una seconda stagione i protagonisti di “Gomorra. La serie”, almeno quelli sopravvissuti alle lotte camorristiche della prima, è tempo di bilanci. Tra i prevenuti, gli scettici e i sostenitori a prescindere, ecco tutte le sfaccettature di quella che è stata definita la più bella fiction italiana degli ultimi anni.

LA SERIE BEN FATTA
A mettere tutti d’accordo è stato il prodotto. Quello in cui ha creduto e investito Andrea Scrosati, vicepresidente per l’area cinema e spettacolo di Sky e canali partner; quello ben scritto, ben diretto e ancor meglio recitato, secondo le opinioni pressocché unanimi degli esperti. (Leggi qui i segreti del successo di Gomorra. La serie)

LA SERIE DEL MALE
Tanta violenza e crudeltà e una sola Napoli, quella del Male. Un difetto che per altri si traduce in una scelta stilistica: “Il peggior modo di raccontare il bene è farlo in modo didascalico. Tutti cattivi? Sì, in quel mondo non ci sono personaggi positivi, il bene ne è alieno. Nessuno con cui lo spettatore può solidarizzare, nel quale si può identificare. Nessun balsamo consolatorio. Nessun respiro di sollievo. Lo spettatore, in maniera simbolica, non doveva avere tregua, come non ha tregua chi vive nei territori in guerra”, ha raccontato Roberto Saviano in un lungo articolo su Repubblica.

L’AFFATICAMENTO DA SPARATORIA
Condividendo con Saviano l’intento di rifuggire dal “lavare i panni sporchi in famiglia”, Michele Serra, scrittore e giornalista di Repubblica, ha confessato però qualche perplessità sulla scelta stilistica dichiarata dallo scrittore: “Da spettatore confesso che qualche affaticamento da sparatoria, da sgozzamento e da canaglierie assortite, a partire da Romanzo Criminale (la fiction) e incluso Tarantino, ce l’ho. Come se, anche per accumulo, il crimine e la sopraffazione, divenuti “genere”, rischiassero il manierismo, con decine di emuli che sfruttano la scia”, si legge oggi su Repubblica.

IL PEGGIOR SPOT PER NAPOLI
E per qualcuno guardando “Gomorra. La serie”, in questo modo è sembrato che a Napoli non regnasse altra vita al di fuori di quella delinquenziale: “Mi si dice che quella della serie tv è Gomorra, un non luogo, non Napoli; e che dunque sbaglio a leggervi una interpretazione della città. Ah, sì? E allora dobbiamo metterci d’accordo. Se ciò che si racconta, come gli autori rivendicano, è la camorra vera; se il dialetto è quello napoletano; se i delitti sceneggiati sono gli stessi avvenuti nella realtà e se le Vele sono quelle di Scampia e non della Costa Azzura, come si fa a sostenere che quello è un luogo immaginario? Se invece è fantasia, allora ritiro tutto. Ma se è Napoli bisogna ammettere che è una Napoli parziale, e sfuggire dunque alla tentazione retorica della metonimia; dell’uso, cioè, della parte per il tutto. È in questo senso, io dico, che Gomorra non racconta Napoli”, ha scritto il giornalista di Rcs Marco Demarco sul Corriere del mezzogiorno. 

UNA REALTA’ SCOMODA
A tutti gli infastiditi dalla serie ha trovato una risposta la conduttrice televisiva e fan sfegatata Daria Bignardi: “Gomorra–La serie purtroppo racconta la verità del Male, la sua brutalità terribile e senza riscatto, di cui è difficile accettare l’esistenza”, ha scritto la conduttrice tv sul suo blog.

LA SERIE RUBATA
Infine c’è la Gomorra rubata. La serie che avrebbe potuto far grande la Rai ma che per una serie di vicissitudini è finita in mano a Sky: “È inaccettabile che Gomorra non sia stata realizzata dalla Rai, è la dimostrazione che la tv di viale Mazzini ha la necessità di cambiare passo, la percezione che ha l’utente del servizio pubblico è di conservazione e non innovazione”, ha scritto Loris Mazzetti sul Fatto Quotidiano.

Mazzetti si riferisce al regalone fatto nel 2010 dalla direzione generale della Rai a La 7. Su ordine di Silvio Berlusconi Roberto Saviano abbandonava la possibilità di un contratto in esclusiva a Rai3 e metteva fine ai grandi ascolti ottenuti dal servizio pubblico con “Vieni via con me”.

Tutto ciò ha significato per la Rai, “non solo aver perso una grande occasione, ma aver fatto crescere produttivamente un concorrente che potrebbe diventare più forte di Mediaset”, commenta Mazzetti.

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