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Il fado di Ronaldo. Il taccuino mundial di Gennaro Malgieri

Non basta Cristiano Ronaldo. Una partita non la si vince con un solo giocatore anche se qualche eccezione talvolta conferma la regola (abbiamo visto Messi risolvere al 91’ il complicato incontro con l’Iran e non so quante volte Maradona ha giocato praticamente da solo contro undici avversari ed ha vinto).

Ma il Portogallo non è l’Argentina, da tutti i punti di vista e Ronaldo è piuttosto acciaccato anche se nel finale con gli Stati Uniti ha dato il meglio di sé. Resta la sensazione che neppure questa volta – semmai qualcuno avesse nutrito speranze piuttosto ardite – i lusitani riusciranno ad arrivare fino in fondo. C’era già chi pregustava una finale Brasile-Portogallo e dunque Neymar-Ronaldo, ovvero Barcellona-Real Madrid su scala planetaria. Non è aria.

E’ dalla prima volta che parteciparono al Mondiale nel lontano 1966 in Inghilterra che i portoghesi sognano di vincere il titolo. Nelle sei volte che hanno disputato il torneo si sono sempre illusi di vendicarsi dello “scippo”, assolutamente inesistente dal momento che l’Inghilterra vinse limpidamente, del quale si ritengono tuttora vittime. Arrivarono terzi, grazie ad un immenso Eusebio, capocannoniere con nove reti e protagonista di una rimonta stratosferica, quella contro la Corea del Nord, che aveva eliminato l’Italia con il gol del tristemente (per noi) famoso dentista Pak Doo-Ik: sotto di tre reti, il Portogallo ne segnò ben cinque, ma in semifinale sulla sua strada trovò i padroni di casa che gli sbarrarono il passo. E cominciò la rincorsa che finalmente dopo il secondo posto al Campionato europeo nel 2004 ed il quarto al Mondiale del 2006 è sembrata sempre più vicina. In Brasile, invece, sembra essere finita non certo nel modo in cui immaginavano i malinconici portoghesi che dopo Eusebio hanno cercato l’erede del riscatto in campioni che non potevano vincere da soli, su tutti Figo prima ed ora Ronaldo.

Il calcio portoghese è, ad osservarlo nelle sue pieghe meno evidenti, una variante del fado. Affascinante, coinvolgente, triste, eppure entusiasmante. Perché anche quando non c’è più felicità resta pur sempre il dolore, un tesoro di inestimabile valore nel quale soprattutto i popoli che hanno vissuto esperienze grandiose e risucchiate nel gorgo della storia, possono immergersi per rigenerarsi. Il dolore ha questo potere. Nelle storie d’amore cantate da Amalia Rodriguez (inarrivabile e mitica), nella sensualità di Ana Mura, nel “tradizionalismo” di Mariza, o nella innovatrice Cristina Branco o di Mafalda Arnauti, la disperazione s’apre come d’incanto alla speranza. E quando non accade nell’infelicità si ritrova il senso di un destino.

Forse per noi vale una diversa verità. Il dolore dei lusitani che ho visto spaesati sul campo all’inseguimento degli statunitensi, ha rinnovato in me il ricordo delle lacrime che segnarono il mio volto di tredicenne dopo i due gol di Bobby Charlton ed il rigore finale realizzato da Eusebio che non bastò per arrivare in finale. Non è bastato il gol di Varela a Manaus, ma si dice che le speranze non sono ancora svanite. Chissà.

Metto su E viemos nascidos do mar. Ana Mura è straziante. Ronaldo e compagni, nati e venuti dal mare, attraverseranno un’altra volta l’Oceano, cercando di scacciare la nostalgia. A meno di miracoli. Resta il fado. Ed un’altra occasione. E poi un’altra ancora, come fantasticavano i realisti al tramonto dell’impero dei Braganza. Inseguendo l’impossibile tanto per dare un senso ad una vittoria sempre sognata.


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