Nel silenzio irreale post-sconfitta, abbiamo cominciato a chiederci, da un balcone all’altro, da una finestra all’altra, per quale motivo la nazionale di calcio italiana non è mai uguale a se stessa. Un pensiero para-filosofico nella calda serata romana non è proprio da sani di mente. Ed infatti noi tutti che attorno ad esso ci accapigliamo ne siamo consapevoli.
Il guaio, purtroppo, è che non sappiamo dare una risposta, così come non sanno darla i protagonisti della disfatta del Pernambuco. I quali, è bene sottolinearlo a futura memoria, esprimono al riguardo concetti esaltanti (per loro) che dovrebbero addirittura se non proprio entusiasmarci quanto meno tranquillizzarci: “Ci sono mancate le energie. Dobbiamo recuperarle assolutamente in vista della partita con l’Uruguay”.
Un pensiero “liquido”, come è facile capire, senza offesa per Zygmunt Bauman. Ma talmente liquido che non lascia traccia sulle nostre meningi disfatte che hanno voglia soltanto di riposare. Neppure il richiamo della cena, inevitabilmente sobria prevedendo il peggio, ci impedisce di abbandonare al loro destino Benzema e Inler che s’apprestano a giocare una vera partita di calcio, mica come quella dell’Italia disputata da zompettanti abusivi del football timorosi del caldo, dell’afa, della fatica, forse pure delle zanzare, ma non della Costa Rica della quale un bel tipo che fa di mestiere il centravanti e fallisce le palle-gol più banali, aveva detto di non sapere nulla: ma un DVD non potevano farglielo vedere o non rientra forse negli accordi contrattuali tra la Federazione ed i calciatori documentarsi sugli avversari?
Resta il pensiero iniziale. Perché l’Italia illude e delude? Contro l’Inghilterra abbiamo visto una squadra compatta, una formazione-comunità come l’abbiamo definita, ordinata e coriacea, vogliosa di vincere e di ben figurare. Quella scesa in campo contro i costaricani non è stata neppure l’ombra di quella vista sei giorni prima. Che cosa è successo? A Manaus faceva forse meno caldo, l’umidità era più sopportabile? Diciamo la verità: in campo ci si sta con delle idee e queste non spuntano come mammole a primavera, ma si coltivano nel tempo. L’eccezione è stata la vittoria sugli inglesi, non la sconfitta con la Costa Rica. Prima dell’exploit che ci ha illusi, da quanto tempo la nazionale non vinceva e soprattutto non convinceva? Imbarazzante ricordarlo.
Comunque vada con l’Uruguay – Suarez e Cavani sono pessimi clienti, lo sappiamo – un altro ciclo è finito. E uno nuovo può cominciare soltanto mettendo alla porta finti campioni che alla chiamata non rispondono mai: nomi non ne facciamo, per non infierire, tanto li abbiamo visti tutti.
Qualcuno dirà che non c’è di meglio in circolazione. Ma si vada a pescare tra i giovani promettenti da allevare e ci si adatti all’idea di saltare un turno magari: ricostruire è fatica che non si esaurisce nel convocare un centinaio di giocatori in due o tre anni per poi scegliere dal mazzo quelli che già si sapeva che sarebbero stati scelti.
Osare. È il solo insegnamento che ci possiamo portare dalla spedizione brasiliana. Quale che sia l’esito. Se lo mettano bene in testa i padroni del calcio italiano. L’hanno capito in Costa Rica, non si comprende perché non dovremmo capirlo noi.