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Irak, pro e contro di un’offensiva americana con i droni

Dalle sabbie dello Yemen alle montagne al confine tra Afghanistan e Pakistan, i droni sono ormai l’arma privilegiata nella guerra al terrore.

Veloci, invisibili, efficaci e con un rischio nullo di perdite di vite umane, rappresentano il mezzo ideale per condurre attacchi mirati in situazioni dove agire con truppe di terra sarebbe troppo rischioso, come in Siria o, più di recente, nell’avanzata irachena dei miliziani dell’Isis.

In ossequio alle nuove linee di politica estera americana dettate dal presidente Barack Obama nel suo discorso a West Point, anche in Irak gli Stati Uniti non interverranno direttamente sul campo, ma hanno in serbo una serie di opzioni, ancora da vagliare.

Compresa un’offensiva mirata con l’ausilio di aerei a pilotaggio remoto, che però, svela Defense One, ha pro e contro da non sottovalutare.

I PRO

Sono in molti a chiedersi, spiega il Washington Post, quando gli Usa invieranno droni per contrastare i jihadisti dell’Isis. E anche il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki ha detto pubblicamente che concederebbe agli Stati Uniti di effettuare attacchi sul proprio territorio con Predator e Reaper.

Per quanto riguarda il lato operativo, l’uso di Apr contro i miliziani in Iraq avrebbe, secondo gli esperti, gli stessi benefici che i velivoli a pilotaggio remoto hanno avuto in ogni campo di battaglia dove sono stati schierati: sono a basso costo e basso rischio. Rispetto a caccia tradizionali o aerei da ricognizione, possono volare più a lungo senza fermarsi, consentendo una migliore raccolta di informazioni e di targeting. Quando sono abbattuti, non bisogna poi preoccuparsi di una situazione in cui possano esserci ostaggi o la morte di un pilota. Poi, data la natura delicata delle relazioni diplomatiche con l’Irak e l’accumulo di forze dell’Isis nella regione, attacchi mirati con i droni potrebbero essere facili da realizzare, soprattutto se condotti rapidamente, magari dalle basi afghane, come spiega Paul Scharre, fellow e project director per la 20YY Warfare Initiative al Center for a New American Security.

Dal punto di vista politico, invece, non essendoci accordi tra i due Paesi per una presenza militare americana sul territorio iracheno, l’uso dei droni potrebbe evitare spiacevoli ripercussioni interne. “In questo modo – sottolinea Sam Brannen, senior fellow del Center for Strategic International StudiesMaliki manterrà la sua credibilità del leader e potrà dire di non aver autorizzato nessun attacco Usa. In fondo si tratta di robot volanti“. In questo caso, evidenziano inoltre gli analisti, i droni potrebbero avere anche una valenza simbolica ed esemplare.

I CONTRO

Naturalmente, il ricorso ai velivoli a pilotaggio remoto comporta anche delle controindicazioni. L’organizzazione, secondo gli esperti, si sarebbe ormai ingrandita a tal punto che un’offensiva con droni armati potrebbe essere utile, ma non decisiva per risolvere il conflitto, soprattutto a fronte di un’assenza di supporto da parte del governo di Maliki e dei soldati iracheni, che abbandonano il campo di battaglia. Una situazione che non cambierà con l’uso di Apr.

E proprio come in altri conflitti – rimarca Audrey Kurth Cronin, direttore del Center for Security Policy Studies della George Mason University che aveva già scritto sull’uso/non uso di droni in Siria -, la situazione è talmente complessa da non consentire di avere un quadro chiaro di ciò che accade sul terreno. Non avendo una buona intelligence sul terreno, come ha ammesso il portavoce del Pentagono, l’ammiraglio John Kirby, sarebbe difficile identificare i target giusti. I droni, rilevano gli esperti, funzionano meglio per aggredire obiettivi chiari e non grandi masse di combattenti, organizzati ma dalla strategia mutevole e, soprattutto, composti in larga parte da foreign fighters.

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