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Italia, squadra-comunità. Il taccuino mundial (non solo sportivo) di Malgieri

Bentornata Italia. Era da tempo che l’attendevamo. Diciamo dal 2006? Diciamolo. Da allora, da quella autentica impresa alla quale alla vigila nessuno credeva, è stato un calvario interrotto da un mezzo successo (rocambolesco) all’Europeo del 2012.

Gli spiriti amazzonici di Manaus hanno cominciato a soffiare quando la calura s’è fatta più intensa e gli azzurri rischiavano (temevano?) di non farcela. Dalla loro i bianchi d’Inghilterra, ritenendosi come al solito superiori per diritto divino, hanno sguarnito la difesa, allentato il centrocampo e lanciato all’arrembaggio Rooney, Sterling, Sturridges come se dovessero espugnare una fortezza. Gli italiani non si sono fatti assediare ed hanno reagito con il cuore e la ragione organizzando un attacco ordinato che prima Marchisio e poi Balotelli hanno concretizzato con due magnifiche reti, a tacere della qualità della complessiva manovra azzurra ispirata dal solito Pirlo e dal novizio Darmian, a mio giudizio il migliore dei nostri e promessa di un futuro luminoso.

Doveva essere l’Italia peggiore, secondo i pronostici: si è rivelata l’Italia migliore, soprattutto dotata di carattere, personalità, spirito di sacrificio, coesione tra gente ritrovatasi e finalmente riconosciutasi compatibile. Quest’ultimo aspetto, che non esito a definire “comunitario”, chissà perché viene solitamente trascurato. Una compagine calcistica è per definizione una comunità: se si disintegra, va a pezzi quello che in gergo va sotto il nome di “organico”. Una squadra ha le stesse caratteristiche delle membra sociali i cui movimenti o sono sincronizzati o tutto va in malora. Scomodiamo Ferdinand Tonnies per richiamare il valore della dignità che sta alla base di tutte le organizzazioni comunitarie? Non mi sembra il caso. È persino ovvio. Ma tanto ovvio talvolta purtroppo non lo è proprio guardando al movimento calcistico dove altre “figure” elementari spesso predominano e distruggono quel collante che può tenere insieme i diversi pur proiettati nel raggiungimento dello stesso scopo.

Adesso, non saprei dire per quale miracolo, forse il clima amazzonico o più probabilmente il sentimento dell’appartenenza che pure di tanto in tanto fa capolino tra giovani capaci di mettere da parte le loro inquietudini legate ai personali interessi, sta di fatto che adesso l’Italia – speriamo di non essere a breve smentiti – è una squadra-comunità. Se perfino Balotelli sembra rinato ed integrato, vuol dire che qualcosa è accaduto.

Nessuno ci dirà mai che cosa, ma credo che passare parecchio tempo insieme, conoscersi, coltivare l’amicizia fuori dal rettangolo di gioco voglia dire molto. E se il sistema del calcio in Italia (altrove non è diverso, se non in parte) non favorisce lo sviluppo dello “spirito azzurro”, cioè il legame che dovrebbe essere a fondamento di una compagine nazionale, non ci sarà mai continuità nell’esprimersi al meglio.

Sociologia dello sport? Perché no. Il calcio é una delle più formidabili forme culturali del nostro tempo. Riguardarlo soltanto come “evasione” equivale a non comprenderne la portata. Ma questo è un altro discorso.

L’Italia vista all’opera nell’Arena amazzonica di Manaus si candida ad arrivare molto lontano. Darmian potrebbe essere il nuovo Grosso, l’ “eroe” del 2006, senza nulla togliere a tutti gli altri. Le sorprese a cui ci ha abituati la nazionale sono tantissime: ve lo ricordate quel Paolo Rossi che, contro ogni pronostico, sbaragliò in Spagna, nel 1982, Brasile, Argentina e Germania? Gli dèi del pallone appaiono e scompaiono come e quando voglio.

Per esempio hanno assistito Colombia e Costa Rica – magiche realtà del calcio sudamericano insieme con il Cile – e negato la loro benevolenza all’Uruguay. Forse perché la Celeste da quelle parti deve ancora scontare qualcosa…
Intanto alcuni idoli sono crollati e quelli che ancora non hanno mangiato la polvere non stanno tanto bene.


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