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Leopolda sì, ma fusionista

Chiariamoci fin da subito: il termine “Leopolda” non sarà forse dei migliori ma è particolarmente evocativo. Non ci spaventa che si tratti di uno dei totem del nuovo pensiero unico renziano: chi se ne frega, se serve lo usiamo anche qui, nel centrodestra. Perché “Leopolda” richiama alla mente una fase convulsa ma innovativa del Partito Democratico. Una fase in cui, con tutti i loro limiti, giovani appartenenti ad un’altra generazione e poco conosciuti dalle parti del Nazareno, scelsero di giocare la loro partita, finendo con il vincerla qualche anno più tardi.

Del tema “Leopolda”, quindi, ci teniamo volentieri il nome. Sul concetto andremmo cauti. Il centrodestra, oggi, non è – ahinoi – nelle condizioni di potersi scegliere un leader o di aprire una contesa sulla leadership. Attraversa una fase talmente complessa da rendere necessario, prima di ogni altra cosa, un reset complessivo di quel che è stato per provare a ricostruire quel che dovrà essere.

L’happening fiorentino servì a Matteo Renzi per iniziare la sua scalata e si incastrò alla perfezione con un partito che aveva una struttura molto forte, una cultura politica ben delineata e agganci molto solidi in pezzi importanti della società italiana. A quel partito, però, mancava un leader carismatico e una faccia spendibile capace di allargare il consenso oltre il recinto del già conosciuto.

Il centrodestra ha vissuto per anni il problema opposto: nonostante una leadership indiscussa e campagne elettorali arrembanti, ha completamente mancato l’appuntamento con la costruzione di una solida base culturale, ideale, politica. Oggi, praticamente senza leadership, la classe dirigente del centrodestra si trova a dover, per dirla con Guccini, “costruire su macerie”: operazione per nulla facile, specie se per anni proprio quella leadership ormai in declino ha coperto con il suo carisma ogni tipo di difetto.

La Leopolda che serve al centrodestra è quindi essenzialmente una riunione di idee: di anime, di pezzi, di frammenti, di persone e di comunità. Di tutti quelli che nel centrodestra conosciuto sin qui ci sono stati. E di tutti quelli che sono rimasti ai margini. Senza primogeniture e, soprattutto, senza esclusioni. Sarebbe un totale fallimento, perché ci riporterebbe  al punto di partenza, se una “Leopolda moderata” consegnasse come risultato l’emergere di qualche faccia nuova buona per una prima pagina su qualche giornale d’area.

Il tentativo dev’essere, per forza di cose, più ambizioso: le leadership emergeranno nei processi democratici che sogniamo per un partito normale. Si affermeranno perché capaci di riunire attorno a sé uomini e donne che condividono un progetto e di dialogare con quelli che hanno idee leggermente differenti. Ma hanno bisogno di terreno fertile su cui germogliare, piantare radici, dare i loro frutti. Costruire quel terreno è compito di chi oggi ha a cuore le sorti del centrodestra nazionale.

Provare a non morire renziani e socialdemocratici significa credere con determinazione al fatto che esistano praterie da arare e coltivare. E che per farlo c’è bisogno di tutti, dai turbo-liberisti ai conservatori sociali, passando per i pasdaran berlusconiani e per chi credette nella svolta finiana. Per dirla con il desolante quadro politico attuale: dalla Lega a Fare. E non in funzione anti-Renzi o anti-sinistra, ché è troppo poco e già abbiamo visto che non funziona, ma con una visione pro libertà: individuali, di gruppo, di comunità, di impresa.

Chi condivide questa impostazione fusionista ha il dovere di superare gli steccati e di provare a costruire qualcosa di più grande di una corsa per la leadership o di qualche variazione percentuale alle prossime elezioni. Più grande anche di un seggio in Parlamento o di uno stipendio sopra la media in qualche consiglio regionale della penisola. Chi ci sta ha il dovere di offrire un’alternativa al pensiero unico socialdemocratico, allo Stato come risposta, al collettivismo egualitario come nuova religione laica. E lo si può fare solo aggregando e discutendo. Il resto è noia. E un centrodestra minoritario.



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