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Ochoa e Umberto Saba. Il taccuino mundial di Malgieri

Per uno sugli altari, undici nella polvere. L’ultimo canonizzato della chiesa calcistica si chiama Francisco Guillermo Ochoa. Di mestiere fa il portiere. E’ messicano e ha giocato fino ad un paio di mesi fa nell’Ajaccio, in Corsica, precipitato in serie B. Se n’è andato ed oggi è senza squadra. Finora tutti si erano dimenticati di lui. Dopo le performance con la Croazia e con il Brasile si sono resi conto che è uno dei migliori numero uno al mondo. Praticamente un fenomeno. Degno erede di “Conejo” Perez, di Oswaldo Sanchez e di Jorge Campos portiere, quest’ultimo, per caso ed attaccante per vocazione: il suo più grande rimpianto è stato quello di non aver mai segnato un gol con la sua nazionale, ma finge di trascurare quelli che ha negato agli avversari.

Chissà se Ochoa rivendicherà il merito di aver fermato a Fortaleza il Brasile compromettendone probabilmente il successo finale. Ma quella parata sul colpo di testa di Thiago Silva non la dimenticherà di certo, come non la dimenticheranno centinaia di milioni di calciofili che ad  ogni latitudine si saranno chiesti se stavano sognando. E così di altri impossibili interventi, sui quali si è infranto il sogno dei carioca, dai quali emerge, quanto meno ce lo si aspetta, la grandezza del portiere, perfino del più sottovalutato, ordinariamente più solo di un’ala destra (come diceva un mio amico poeta del calcio), più insultato di chiunque altro quando sbaglia una presa, più trascurato di un mediano.

Il fatto che Ochoa, detto anche “Memo”, sia nato il 13 luglio del 1985 e il giorno della finale al Maracanà compirà trent’anni, è di buon auspicio. E’ improbabile che il suo Messico sia lì quel giorno, ma è ancor più improbabile che ci sia il Brasile visto finora. La Seleçao è finita. Anzi, forse non è mai nata. Prendiamone atto. Da tempo non assomiglia più a quella che era. Se non sbaglio l’ultima volta che l’abbiamo vista all’opera, in tutto il suo splendere, pur mostrando segni di decadenza, fu nel 2002 all’International Stadium di Yokohama in Giappone. Ronaldo guidò la squadra alla conquista del quinto titolo battendo la solita Germania, sia pure ai rigori. E con lui c’erano Roberto Carlos, Rivaldo, Ronaldinho, Cafu. Non erano i mitici degli anni Cinquanta-Settanta e neppure quelli degli Ottanta molti dei quali “italiani”, ma erano pur sempre gli avversari da battere in continuità con quelli che ci sconfissero a Pasadena nel 1990.

Se il calcio è la forma della geometria dinamica (una formula che vale solo per questo gioco), per come i brasiliani l’hanno rielaborata dopo aver appreso i “fondamentali” dagli inglesi alla fine del XIX secolo, la formazione di Scolari se n’è dimenticata. Corre appresso ad un pallone senza ordine e dove non c’è ordine non c’è vittoria. E neanche poesia. Lo sapevano i predecessori di Neymar e Fred, di Marcelo e Thiago Silva, di Oscar e Paulinho. Nel calcio vedevano la guerra gioiosa, non l’antica “festa crudele”; la rincorsa di ragazzi “sputati dalla terra natia, da tutto un popolo amati” (Umberto Saba).

Il Brasile non sputa più niente e nella Seleçao non c’è più niente. Adesso si spera nel Camerun, nei vecchi Leoni d’Africa anch’essi appagati e adagiati nei confortevoli club europei: non hanno più fame. A differenza di Ochoa, che non diventerà mai Zamora, Yashin o Banks, il cui sorriso è appena offuscato dalla preoccupazione di trovare una squadra. Lui, il miglior portiere dei Mondiali che quasi certamente non ha mai letto i versi del dolce Saba già citato nei quali è scritto un destino doloroso eppure sfolgorante: “Il portiere caduto alla difesa/ultima vana, contro terra cela/ la faccia, a non veder l’amara luce”.

Il portiere sa che il match della vita prima o poi arriva sempre. Ochoa lo sapeva quel 15 febbraio 2004, estremo difensore e riserva dell’America, quando esordì contro il Club de Fùtebol Monterrey. Nessuno ricorda come andò a finire. Tranne lui, ovviamente. Aveva 18 anni e a Fortaleza non c’era mai stato.


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