Sotto il cielo di Rio de Janeiro s’è disfatto l’impero spagnolo, guarda caso in coincidenza con l’abdicazione di Juan Carlos I di Borbone e l’ascesa al trono di Felipe VI. Scherzi (amari) della storia. La nazionale torna a Madrid sconfitta: il nuovo re non ha motivo di ricevere le ombre sbiadite di quella fu un’invincibile Armada calcistica alla Zarzuela. E Casillas, Iniesta, Xabi Alonso, Torres ed i loro compagni di sventura si rinserreranno nelle loro ricche magioni con gli occhi gonfi di lacrime ed il cuore straripante di risentimenti, meditando forse sulla crudeltà del calcio. Perché il calcio è crudele quando non dà più sorrisi.
Il Brasile neppure sulla carta geografica è mai stato spagnolo, se non in poche enclaves e per brevi periodi. Rattrista, forse qualche europeo, ancora di più la circostanza che difficilmente diventerà, sia pure soltanto calcisticamente, terra di riconquista portoghese. Se lo riprendono i latino-americani, finalmente e senza alcuna sudditanza sempre che riusciranno a tenere a bada la Germania, temibile predatrice. Soltanto un miracolo potrebbe ridare (calcisticamente) il Brasile ai brasiliani, ma non sembra che il tempo di esorcizzare la maledizione del 1950 sia arrivato, come quasi tutti ritenevano al vigilia del Mondiale.
Nel Maracanà, intanto, sono stati più i sorrisi che le lacrime. Seduzione sudamericana sugli spalti; agli sguardi spenti dei sostenitori della roja non ci ha fatto caso nessuno. Gli occhi erano tutti per l’altra roja, quella cilena occasionalmente vestita di bianco. I vinti hanno deluso, ma hanno pure stancato: non si può giocare per quasi dieci anni con lo stesso modulo e con gli stessi atleti. Se ne facciano una ragione. Del Bosque aveva in panchina, senza contare quelli lasciati in patria, fior di giovani motivati ed affamati, oltre a fuoriclasse come Reina costretto a guardare le papere di Casillas e Callejon, uno dei più brillanti giocatori che ha onorato la Spagna giocando in Italia, nel Napoli.
E da Napoli è venuto il “brutto anatroccolo” nel quale nessuno credeva quando faceva il panchinaro alla corte di Mazzarri se non Mazzarri stesso. Adesso si è trasformato in un principe dell’attacco cileno, per molti è una stella finalmente spuntata. Si chiama Edu Vargas, ha venticinque anni, è nato a Santiago del Cile dove lo scovò il direttore generale del Napoli Bigon convincendolo a trasferirsi in Italia nel 2012. Non gli diedero il tempo di “maturare”, eppure lo pagarono salato, circa quattordici milioni di euro. Nel gennaio del 2013 lo mandarono a farsi le ossa nel Gremio, in Brasile e a fine anno al Valencia in Spagna. In tutte e due le squadre ha fatto vedere quello che vale. Sampaoli, ct del Cile, suo vecchio estimatore, lo convoca per il Mondiale come seconda punta, insieme con un altro “italiano”, Alexis Sanchez preso dall’Udinese. Il duo delle meraviglie.
Il “napoletano” in esilio fiorisce come d’incanto soltanto perché trova sulla strada chi crede in lui e lo fa giocare. Il Maracanà lo consacra. Infrange i sogni spagnoli con un gol di gran classe, il quarto che segna agli ex-campioni del mondo da quando gioca in nazionale, cioè da quattro anni e in tutte e tre le partite disputate contro di loro. Vargas è diventato un campione fuori discussione. Dovrà rendersene conto anche Benitez alla ricerca di un degno sostituto di Higuain. La leggenda del “brutto anatroccolo” è finita nel migliore del modi. Non ci voleva molto per pronosticarlo. Un giornale cileno, in tempi non sospetti, titolò: “Eduardo Vargas se transformò en el mejor jugador y goleador historico de la Copa Sudamericana”. Era “l’ariete” dell’Universidad de Chile. Aveva ventidue anni.
Nascono e si nascondono, talvolta, i miti del futeboll sudamericano. E’ una costante storica. Un gioco a cui il destino si dedica amorevolmente e perfidamente. Come sempre, come in tutte le cose che accadono in quella terra dove gli dèi del pallone e quelli della povertà allegra, per come può essere allegra la povertà, danzano con la bellezza delle forme che non sono soltanto quelle delle ragazze di Ipanema, di Barranquilla, di Cartagena de Indias o di Maracaibo. Talvolta sono soltanto armoniose geometrie calcistiche che nascono dai piedi inquieti di ragazzi assetati di gioia. Come Edu Vargas, napoletano di Santiago.