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Come pensare il Jobs Act

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il Jobs Act di Matteo Renzi cambia davvero “verso”, per usare lo slogan dell’attuale Primo Ministro, al mercato del lavoro.

Prima, dal povero e mai abbastanza ricordato Marco Biagi, al Ministro Fornero, ai piccoli aggiustamenti successivi, la logica geopolitica della legislazione lavoristica era quella di adattare il sistema produttivo italiano alle lavorazioni “mordi e fuggi” del grande mercato mediterraneo, per evitare che le imprese mature fuggissero dall’Italia in cerca di una forza-lavoro a bassissimo prezzo e ben controllabile sindacalmente.

Se tutte o quasi tutte le imprese italiane sono PMI, allora la concorrenza da parte dell’ex Patto di Varsavia o del Mediterraneo “allargato” diviene invincibile, perché a questo punto l’unica variabile che conta è il costo del lavoro.

Il Jobs Act, lo si legge tra le righe, è fatto per stabilizzare una manodopera semiartigianale per le imprese medie “di nicchia”, come quelle della Toscana cara all’ex-Sindaco di Firenze. E per evitare la fuga non dei capitali, ma delle impreve verso altri lidi, dove il lavoro costa una ciotola di riso e un bicchiere di tè.

L’impresa piccola e media che, in una dissennata politica economica successiva al 1994, è rimasta l’unico asse produttivo del nostro Paese.

Sempre tra le righe del Jobs Act, si legge che, grazie a questa fidelizzazione della manodopera migliore, si può ricostituire una rete di imprese medie che possono anche crescere, ma qui il problema divengono le banche.

Ma, a parte la valutazione geopolitica, ci sono nel testo alcuni elementi che fanno discutere.

Bene, lo diciamo subito, il concetto che i lavori a termine devono lasciare posto a un contratto unico, a tempo indeterminato, dopo una prima fase di addestramento/valutazione della forza-lavoro.

Ci sono qui da valutare le due linee sul “contratto unico”, quella di Scelta Civica e l’altra di Boeri-Garibaldi. Quest’ultimo prevede un contratto unico a tempo indeterminato reso più flessibile nei primi tre anni, con facoltà di licenziamento e indennità piccola, e l’applicazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori dal quarto anno in poi. Per chi scrive, tre anni sono troppi, la valutazione è stata già fatta e le imprese, quindi, tenderanno a non assumere.

Il modello di Scelta Civica prevede una protezione crescente in funzione dell’anzianità di servizio. Ma si perde il lavoro, in Italia, anche perchè cambiano le tecnologie e i mercati, o perché le imprese falliscono. A tutt’oggi, le aziende in Italia falliscono al ritmo di 1200 al mese. Un tasso del 18% in più rispetto al primo semestre dello scorso anno. E questo accade non per colpa del costo del lavoro, salvo rari casi, ma per colpa del fisco d’impresa e della concorrenza internazionale che, fra poco, imiterà o sostituirà le produzioni alto di gamma che sono tipiche della nostra attuale formula produttiva.

Ma torniamo al Jobs Actviene introdotto un “tetto” per i lavoratori a termine, del 20% per ogni imprenditore.

Bene: ma dipende dalla tipologia produttiva dell’azienda il ricorso a maggiori o minori “dosi” di lavoro a tempo. Si pensi qui a tante lavorazioni stagionali nell’agroalimentare, o al settore turistico.

Il diritto di precedenza per le donne in gravidanza va benissimo, ci mancherebbe, ma anche qui occorre valutare cum grano salis: la maternità è sacra, ma rimangono incinte sia le operaie brave che quelle meno brave.

Il “piano formativo personale”, che rimane nel Jobs Act, è una invenzione farraginosa e inutile. Si impara a lavorare lavorando, con la paga e le protezioni giuste.

Leonardo da Vinci ha imparato a dipingere nella bottega del Verrocchio, mica in uno stage della Provincia di Firenze.

Ci sono altre norme specifiche, soprattutto nel settore dell’apprendistato, che vanno bene.

Ma l’apprendistato va liberalizzato, pur tutelandolo per evitare le situazioni alla Dickens: i ragazzi che non vanno bene a scuola e che non sono interessati allo studio vanno inseriti nell’unica scuola di vita e di scienza che ci sia, quella del lavoro, e soprattutto del lavoro manuale. Che deve ritornare ad essere quello della Bottega del Verrocchio

Insomma, il Jobs Act va nella direzione giusta e sarà utile se porterà, insieme, ad una fine dell’emigrazione delle imprese piccole e medie all’estero e al miglioramento degli occupati e, soprattutto, alla diminuzione del numero dei disoccupati.

La disoccupazione è, lo ricorda Giorgio La Malfa nella sua bellissima biografia ragionata di Enrico Cuccia, il problema che angosciava da sempre anche il fondatore di Mediobanca.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa

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