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Come pensare la cultura in un mondo che cambia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Che cos’è la cultura, e quindi cosa significa preservare e favorire il suo sviluppo, e permettere inoltre la conservazione della memoria della cultura, i monumenti, appunto?

“Monumento” deriva da monere, che significa in latino “ricordare”, “far sapere”, e la terminazione mentum indica sia il mezzo che l’atto. Il Monumentum è quindi qualcosa di “attivo”, non solo di passiva memoria del fatto ricordato.
Se quindi proteggere i monumenti è un qualcosa di attivo e creativo, che si rinnova per ogni atto della memoria, allora proteggere i monumenti nel senso moderno e oggettivo del termine vuol dire, per molti aspetti, ricrearli, e ricreare, nell’Atto, il clima e il significato profondo di ciò che ricordiamo.

Diceva Dante Alighieri che “non esiste scienza sanza ricordar lo avere appreso”, ed in effetti ricordare e creare sono momenti di una stessa fase, ripetere è ri-creare, e ricordare è anche pensare.
Detto questo, cosa vuol dire, per la cultura contemporanea, proteggere il patrimonio monumentale dei popoli e delle civiltà? Certo, il primo dato, quello della protezione materiale è il più ovvio e necessario, ma i monumenti si distruggono proprio perché vengono dimenticati, non fungono più da monito, da strumento di memoria.

Nietzsche diceva, nella sua “Seconda Considerazione Inattuale”, quella sull’utilità della storia per la vita, che esiste la “Storia Monumentale”, che è quella delle persone attive, che cercano nel passato dei modelli da imitare.
Ma oggi, a dire il vero, non cerchiamo più dei modelli da imitare e, per molti versi, soprattutto nel Mondo Occidentale, non siamo nemmeno molto attivi. E questo è uno dei motivi per cui dimentichiamo i monumenti, indubbiamente.

Poi vi è per Nietzsche la “storia antiquaria” quella di chi cerca nel passato le proprie radici. Ma, in un mondo globalizzato, come si fa a cercare le proprie radici? E, infatti, la globalizzazione porta alla “società liquida”, come l’ha chiamata Zygmunt Bauman, che è un universo dell’eterno presente dove la memoria è quella del consumo, non della produzione, e quindi i monumenta historiae non ci dicono più niente. L’abolizione-commistione degli stili architettonici e artistici, poi, non rende più percepibili le fasi storiche nelle quali il monumento è stato concepito. Nessuno riuscirebbe a definire, oggi, la Stazione Centrale di Milano di “stile composito”, perché si è perso il concetto di stile, che è una collocazione nello spazio mentale e nel tempo della Storia Monumentale quella costruzione.

Galileo Chini, un artigiano toscano che fu scenografo di Giacomo Puccini, creò le Terme di Salsomaggiore Terme e molti altri edifici di un geniale, sfarzoso e abbondante Liberty, che l’artista aveva rielaborato creando il Palazzo del Re del Siam. Ecco, oggi siamo ancora capaci di ri-creare uno stile nuovo a partire dalla commistione degli stili tradizionali? Riusciamo a creare un paradigma concettuale, e quindi stilistico, a partire dalle tradizioni altrui? Temo di no. E temo soprattutto che le scuole di ogni ordine e grado, oggi, non riescano a trasmettere nessun significato di “stile”, proprio perché si è perso il concetto stesso di stile, che è collegato intimamente ad una gerarchia di significati estetici ed etici. Gerarchia che è connessa allo stesso atto del pensare, che è un ricordare per mettere in un ordine alto-basso e destra-sinistra ciò che ricordiamo, vediamo, creiamo.

Pensare vuol dire, lo ricordava il filosofo americano Charles S. Peirce, “fare nel pensiero”, imitare la natura per vedere, giocando in modo privo di pericoli con i suoi elementi, che cosa succede. Potremmo dire che stiamo “facendo un monumento”, se pensiamo nel senso indicato dal pragmatista Peirce. Nei Misteri di Dioniso, nell’antica Grecia, e i misteri dionisiaci sono tra i più antichi, ri-fare gli atti mitici del dio voleva dire acquisirne i poteri e richiamare la sua protezione dall’Alto.

Ecco: se noi non riusciamo a rifondare la lettura dei monumenti, il loro essere ancora vivi per il monere, essi non parleranno più e, se si perde la loro funzione di monito-memoria, essi decadono, prima nel loro ruolo e poi anche materialmente. Tutti i monumenti hanno un codice, ma la società contemporanea sembra credere di essere essa stessa un novum, mentre è solo una raccolta di elementi casuali delle civiltà precedenti, un cambalache, per ricordare il titolo di un vecchio Tango argentino, un caotico mettere insieme ogni elemento con ogni altro. Ecco perché i monumenti decadono: perché nelle scuole, nei mass-media, nelle università, non si trasmette (che è cosa diversa dall’insegnare) il senso della Storia, sia essa niccianamente monumentale, antiquaria, critica, ovvero in questo caso quella storia nella quale si critica il passato per cambiare il presente.

E questo, naturalmente, genera per i monumenti fisicamente intesi due pericoli: la loro banalizzazione, e quindi la riduzione di essi a “estetica” o addirittura a puro divertimento. Si pensi qui alla Piazza dei Miracoli di Pisa, uno dei logo universali dell’Italia, che doveva essere vista dal mare per le galere pisane al loro ritorno dal Medio Oriente, che diviene prato dei divertimenti o solamente la scoperta di una Torre stranamente inclinata. Come se si riducesse la poesia di Giacomo Leopardi alla disperazione di un gobbo. Oppure l’estetizzazione del monumento riguarda la sua riduzione a ornamento, a semplice “godimento dell’anima” che prescinde dalla sua comprensione storica e iconografica.

La Gioconda di Leonardo da Vinci è anche il frutto dell’analisi che Leonardo compiva delle nuvole e delle acque del Valdarno e, senza la scientificità leonardesca, non si spiega il fondo del quadro né il famoso sorriso, che l’Artista ripete dai suoi studi di anatomia.
Se quindi non si ritorna alla Storia, alle tre storie di Nietzsche, non comprenderemo e, soprattutto, non proteggeremo mai i nostri grandi monumenti, che sono stati creati per parlare, parlare a tutti, di quello che devono ricordare.

E questo vale, a maggior ragione, per i monumenti delle civiltà non-occidentali, dove la posizione, la decorazione, la loro struttura interna (penso qui alla Città Proibita di Pechino) è integralmente un singolo e complesso significato. Da questo punto di vista, proprio perché il pensiero filosofico e iniziatico cinese tende alla perfetta sintesi tra pensare, vedere e ricordare, il che peraltro vale anche per la tradizione iniziatica occidentale, ogni cosa è al suo posto come se fosse un dato naturale, ma ovviamente il monumento non è Natura.

Qui, e c’è da ricordare lo straordinario sforzo del Governo Cinese per ricostruire gran parte dei monumenti tradizionali dell’Impero di Mezzo ma, è bene notarlo, tutto ciò accade perché il governo di Pechino sta recuperando, dalle Olimpiadi in poi, le antiche e millenarie tradizioni del popolo. Ovvero, senza un progetto politico di ricostruzione delle proprie radici simboliche, culturali e civili, i governi non troveranno mai i soldi per, faccio un esempio, ristrutturare i palazzi della mia amatissima Venezia. Quindi, è il nesso tra politica e cultura che torna al centro del nostro discorso.

Se la politica è solo calcolo aziendale, allora i monumenti andranno in rovina anche se i governi troveranno i fondi per restaurarli, e le scuole e le università insegneranno solo a fare soldi, e questo significa che ne avremo sempre meno, di soldi.
Se invece la politica è cultura e quindi arte, e la cultura non è solo comunicazione, come sembra accada oggi, allora ci saranno le risorse e i turisti, gli studenti, i visitatori riusciranno, come se evangelicamente si togliessero le croste dagli occhi, a ri-creare il significato dei monumenti che osservano, facendoli rivivere.

Giancarlo Elia Valori è ambasciatore Unesco e professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University

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