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Perché per la Rai lo Stato non dev’essere un problema. Parla Stefano Parisi

Stafano Parisi

È giunta l’ora di una “Leopolda” per la radio-televisione di Stato? La manifestazione “100 parole e 100 mestieri per la Rai” promossa dall’Associazione dirigenti dell’azienda di Viale Mazzini sulle sfide e il futuro del servizio pubblico sta alimentando una riflessione a più voci tra studiosi ed esperti dei linguaggi e tecniche di comunicazione multimediale.

Un’iniziativa che si inserisce nel quadro dell’offensiva promossa da Matteo Renzi sul taglio dei costi della più importante industria culturale del nostro paese. E che ha visto tra i partecipanti Stefano Parisi, già direttore generale di Confindustria, past president di Confindustria Digitale e attuale presidente di Chili-Tv.

Perché ha aderito all’iniziativa?

Ritengo che aiutare una grande azienda culturale come la Rai attraverso proposte innovative rappresenti un dovere per tutti. Ho parlato dei cambiamenti prodotti nel panorama televisivo da Internet, che si sta trasformando progressivamente in una piattaforma di video-streaming. Un mutamento profondo che coinvolge tutti i principali broadcaster e fornitori di offerta radio-televisiva. Per cogliere tali opportunità è necessario superare ogni ansia legata all’avvento delle nuove frontiere telematiche. Perché nei prossimi anni il business multimediale finanzierà progetti e attività culturali in tutta Europa.

Cosa bisogna fare per rompere definitivamente l’ingerenza della politica nell’azienda?

Nel 2008 mi è capitato di essere stato candidato al ruolo di direttore generale Rai. In quell’occasione ho posto alla politica una condizione ben precisa, che ovviamente non fu presa in considerazione: dare al Dg di Viale Mazzini le prerogative di amministratore delegato – come avviene nelle normali imprese secondo le regole del Codice civile – con un Consiglio di amministrazione scelto dal governo tra figure di comprovata indipendenza. Oggi il Dg ha un potere di proposta che il Cda, super lottizzato, deve approvare. Nei fatti è una gestione collettiva permanente. Con il Consiglio che si riunisce ogni settimana! Nessuna azienda può essere efficiente con questa governance.

Condivide i tagli per 150 milioni di euro previsti da Palazzo Chigi a carico di Viale Mazzini?

Anche questa è una grave patologia. Quale azienda può sopportare una decurtazione di 150 milioni di ricavi che arriva per legge a metà anno? Se si vuole riorganizzare e ristrutturare la Rai l’azionista deve porre obiettivi di efficienza e risanamento, e anche di riduzione dei costi, che il management deve realizzare in tempi certi. Non è un’impresa normale se l’azionista decide per legge la presenza o meno delle sedi regionali! La Rai possiede un enorme patrimonio di contenuti, che deve gestire con più efficienza e saper vendere meglio.

È favorevole a una parziale privatizzazione della tv pubblica?

Resto contrario se la volontà è creare una bad company di Stato, con i costi e le inefficienze da molte parti messi in luce, e una new company privata. Non possiamo ripetere l’esperienza di Alitalia. Peraltro non penso che il problema risieda nella proprietà dell’azienda. La Bbc, tv pubblica di eccellenza nel rapporto tra contenuti e costi, ne è la prova emblematica. E poi nutro una grande perplessità.

Quale?

Nel nostro Paese non vedo editori puri capaci di governare la più importante impresa radio-televisiva nazionale. È preferibile un’azienda pubblica, in grado di puntare sull’indipendenza dal ceto politico come avvenuto per le industrie strategiche di Stato, rispetto a una Rai privata in mano a gruppi di interesse che se ne spartiscono le spoglie. Se poi fosse necessario ricercare risorse per un rilancio industriale esiste sempre la strada della Borsa. Ma a patto che vi sia stabilità di governance e di regole, oltre a una chiara e attraente equity story. Vale a dire la documentazione in cui vengono illustrate le caratteristiche essenziali dell’impresa, la sua strategia, il suo successo economico.



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