Il calcio del Cannibale trasforma il Mondiale in una rissa tribale nella quale, dopo lo scellerato episodio che resterà negli annali, tutto è possibile. Non basterebbe neppure l’intervento della FIFA, semmai vi fosse, a riportare ordine in un torneo ormai compromesso.
Sono episodi, quelli che si sono verificati a Natal, che segnano la decadenza del movimento sportivo. Un arbitro può sbagliare un intervento, ma non inficiare il regolare svolgimento di un campionato mondiale; un giocatore può entrare rudemente su un avversario, ma non azzannarlo come una bestia soltanto perché non riesce a tenere a bada i suoi fragili nervi che avevano già dato prove significative in due precedenti occasioni: qualche settimana di squalifica evidentemente non basta.
Il calcio cannibale fa irruzione mentre ci si affanna a propagandare un retorico fair play che non ha mai convinto i veri padroni degli stadi, quei delinquenti che, in combutta con compiacenti ed irresponsabili dirigenti di club, stanno distruggendo uno sport, nonostante tutto, sempre amato.
Un ragazzo ha combattuto contro la morte per un mese e mezzo. Era a Roma per assistere alla finale di Coppa Italia tra il Napoli e la Fiorentina. La sua vita è stata spezzata da una passione. E dovremmo ancora discutere delle misere prestazioni degli azzurri, delle scelte sbagliate di Prandelli, di presunti campioni mai sbocciati sui campi di gioco ed invece esaltati da giornalisti tanto incompetenti quanto spocchiosi?
Dovremmo piangere per questa nazionale italiana che, al di là dei singoli, come organizzazione sportiva vale meno di quello che il ranking della FIFA gli accredita? Dovremmo strapparci i capelli se non riusciamo a mettere insieme una formazione di valore per il semplice fatto che mancano i giocatori di valore grazie alla voracità di club tanto stupidi quanto indebitati che vanno in giro per il mondo a raccattare qualche presunto top player illudendosi di vincere immediatamente qualcosa e tante inutili carabattole per corbellare i tifosi chiudendo, in tal modo, la strada a giovani Italiani che potrebbero crescere e sviluppare le loro potenzialità non solo a beneficio delle società di appartenenza, ma soprattutto della nazionale?
L’Italia era nel ristretto circolo dell’aristocrazia del calcio, fino a qualche anno fa. Adesso fa ridere o piangere, a seconda delle sensibilità. E se Prandelli ed Abete si dimettono non è perché hanno commesso errori (certo di responsabilità ne hanno soprattutto agli occhi di un popolo di sessanta milioni di commissari tecnici), ma per aver preso coscienza che è impossibile e disperato agire in un mondo che non comprende il senso ed il valore dell’appartenenza ad una compagine nazionale.
Se non ci si rende conto di questo dato, qualsiasi discorso sarà inutile dopo l’espulsione dell’Italia dal mondiale brasiliano ad opera della Costarica e dell’Uruguay. Soltanto in seguito si potrà discutere di tattiche, schemi, scelte e preferenze. Intanto è necessario ridare linfa al nostro calcio suscitando interesse intorno a ragazzi che meritano, investendo nei vivai, rivedendo quelle scuole calcio che spesso e volentieri vengono criticate per le modalità di gestione e per le infondate aspettative che generano.
Si può arrivare a mettere un limite alla presenza degli stranieri in campo o è necessario comprare in tutti gli angoli del mondo calciatori che dopo aver fatto esperienza (e miliardi) in Italia ed in Europa la mettono a frutto tornando nelle loro nazionali? A chi non è capitato negli ultimi anni di constatare formazioni di soli stranieri nella nostra serie A? Squadre italiane? Ma non scherziamo…
Ricominciare vuol dire – senza gettare la croce addosso a Prandelli che sa prendersi le proprie responsabilità – rinnovare profondamente il movimento calcistico italiano. E, se del caso, tornare alle origini, quando la FIGC dettava legge e la Lega non era che una associazione di società rispettosa dell’interesse generale. Chi può dire che non si siano invertiti i termini del rapporto?
Dopo l’effimera vittoria italiana sull’Inghilterra, avevamo parlato – fin troppo in fretta – di una ritrovata squadra-comunità. Ci era sembrato davvero che l’Italia avesse cambiato atteggiamento. La convivenza tra diversi era riuscita da quel che si vedeva. Non potevamo immaginare ciò che è stato reso esplicito soprattutto dalle parole di un galantuomo, oltre che grande campione, come Gianluigi Buffon: una radicale spaccatura nello spogliatoio tra i cosiddetti senatori ed alcuni presunti campioncini alla ricerca di una facile gloria troncata da un po’ d’afa. Se in tre partite abbiamo visto soltanto un paio di tiri in porta ed un numero imprecisato di passaggi sbagliati, una ragione deve pur esserci. E chiunque diventerà Ct della nazionale la conosce di certo.
Noi che resteremo incollati al video fino al 13 luglio cercheremo di ricordare senza sofferenza la seconda uscita prematura dal Mondiale dopo quella di quattro anni fa. Accadde la stessa cosa in Cile nel 1962 e in Inghilterra nel 1966. Ricordare quelle formazioni, a differenza di questa volta, ci fa davvero male. Erano campioni sfortunati, ma che gioco producevano… Qualcuno fermò in quegli anni addirittura Pelé (un certo Trapattoni), altri come Sivori diedero lezioni di calcio e di carattere al Cile di un tale Sanchez, altri ancora (ma troppi dovrei citarne) diventarono leggende come Rivera, Mazzola, Bulgarelli, Ferrini, ancora un Buffon (sempre in porta) e poi Janich, Tumburus, Altafini (eroe come Sivori, ed ancor prima Ghiggia e Schiaffino, di dei due mondi), Mora, Salvadore, Facchetti e per non farla troppo lunga mettiamoci soltanto Perani e Juliano per ricordare un grande Bologna ed un effervescente Napoli.
Memoria? Nostalgia? Non ci rimane molto in questi giorni. E soltanto il ricordo di giocatori fantastici, pur nelle disgrazie, solleva un poco dalle meschine querelle nelle quali per mesi ci trascineremo. Si può perdere, ma con dignità. E non è detto che sentire nella testa ancora l’urlo insultante di “Corea, Corea” quarantotto anni dopo non faccia male. Fa solo meno male di ciò che ci capita da un bel po’ di anni. Allora nella polvere cadevano campioni veri e quando rialzavano la testa orgogliosamente mostravano i segni della tragedia. I segni di un’umanità smarrita nello calcio troppo tecnologico, privo di anima.