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Salvare l’Iraq: sì, ma come?

L’avanzata dello Stato Islamico in Iraq sta diventando un problema di carattere internazionale – finora, confuso nel conflitto siriano, si era fatto finta di non vedere, i media lo avevano ignorato (la narrativa stanca che lo racconta è davvero indice di scarsa informazione e modesta preparazione), pensando che prima o poi si sarebbe dissolto, vittima magari di un’implosione. Così non è andata: mesi fa lo sceicco al-Baghdadi, capo supremo dello Stato Islamico, aveva avvisato Obama e l’Occidente: non potrete ignorarci tanto a lungo, primo o poi saremo noi ad interessarci a voi. Ovvio che sia così, almeno per due ragioni.

La prima, è legata all’importanza regionale dell’Iraq: immaginate, per dare un’immagine di paragone, che qualcosa del genere avvenisse in Francia. Ecco, diciamo che l’Iraq in Medio Oriente, vale come la Francia in Europa (e in Occidente). La caduta di tre città importanti in due giorni, è stata definita «una scena horror per la politica estera dell’Amministrazione Obama», da Daniele Raineri e Paola Peduzzi sul Foglio.

La seconda è legata invece proprio all’azione dell’Isis. Lo Stato Islamico per il momento ha interessi locali – la creazione del califfato nello Sham. Ma, come ieri sono stati simbolicamente distrutti i segni di confine “imposti dai colonialisti occidentali” e dagli accordi di Sykes-Picot tra la provincia di Raqqah (in Siria) e quella di Ninive (in Iraq), non è detto che con la stessa potenza evocativa, non si possano ampliare i propri orizzonti. Magari lo Stato che si sta creando, ampio già oltre 500 chilometri (con vari spot, enclavi diciamo così, al di fuori della continuità controllata, come quelli al confine turco-siriano), potrebbe fare da base per l’espansione politica, geografica e militare dell’Islam combattente. Nelle parole del portavoce Abu Mohammed al-Adnani, c’è spesso il riferimento a Roma come obiettivo simbolico, ideologico, ultimo, della guerra santa. Circostanza che fa tremare i polsi, non solo a noi italiani, ma a tutto l’Occidente e rende necessario un intervento per limitare i danni.

Metterci una toppa più che altro, perché ormai, come in Siria, il rischio è che sia tardi.

L’Isis, che si fa chiamare Dawlah, “Stato” (se ne parlava qui), ha probabilmente conquistato molto più territorio di quello che è in grado di mantenere sotto il proprio controllo. Ma per il momento tutto resta tale, anche perché – e le ragioni della facile conquista sono anche in questo – l’esercito non è in grado di contrastarlo. Gli ufficiali, molti messi in quel ruolo per raccomandazioni (quasi tutti appartenenti a famiglie sciite), senza esperienza, hanno abbandonato le truppe, spesso lasciate, già durante i primi scontri, senza supporto logistico (mancavano munizioni, mancavano rifornimenti medici, mancava addirittura il cibo, ai soldati che combattevano). Isolati, anche il sistema di comunicazioni non era (e non è) funzionante. Allora i militari sono fuggiti insieme ai civili invece di combattere, spogliandosi delle divise per non essere identificati; quelle stesse divise che adesso, strappate dei lustrini, sono indossate dagli uomini dell’Isis.

E sarà ancora più difficile contrastare il Dawlah, se saranno confermate le voci che girano sul rifornimento economico. Non ci sono troppe certezze, va detto, per ora ne parlano solo la Tv curda, l’International Business Times che ha ripreso la notizia, e ne ha scritto Eliot Higgins (aka “Brown Moses”) su Twitter. Secondo quanto dichiarato dal governatore regionale di Ninive Atheel al-Nujaifi, mancherebbero dalle casseforti della Banca Centrale di Mosul 429 milioni di dollari. Una cifra spaventosa, che farebbe dell’Isis il più ricco gruppo terroristico del mondo.  E dire che i finanziamenti già non mancavano, considerando anche che è stato fondato ufficialmente nel 2013: nelle sue casse sarebbero presenti circa 8 milioni di dollari, ottenuti per lo più attraverso furti, rapimenti e riscatti, estorsioni, “tasse sulla rivoluzione” pagate dai territori controllati, ma non mancano finanziatori privati.

Tener botta ad una «tribù di guerra» (definizione di Guido Olimpio sul Corsera) tanto determinata quanto (ri)fornita, è complicato. L’esercito iracheno non ne è capace, s’è detto, al punto che il premier Maliki ieri ha ufficialmente chiesto aiuto agli Stati Uniti, invocando raid aerei americani sui propri territori. L’America ha fatto orecchie da mercante, rispondendo che intende aiutare l’Iraq, ma preferisce non essere coinvolta ufficialmente – è la politica dell’inazione, del pragmatismo cinico di Obama, che ormai a questo punto resta quasi l’unica soluzione attuabile: tipo “fate vobis” che tradotto nel gergo politico del Prez diventa “don’t do stupid things“, non fare cazzate, e forse è da vedere se stare fermi ad aspettare, in Siria per esempio, non sia stata una di queste.

Forse gli Stati Uniti potrebbe accelerare la spedizione degli F-16 e degli Apache comprati da Baghdad, che prima di fine anno non sarebbero dovuti arrivare – l’Aviazione irachena, per il momento si è dovuta attrezzare con Cessna armati da missili Hellfire (di questi ne dovrebbero arrivare un paio di centinaia in più). Forse, ancora, l’Amministrazione potrebbe pensare a qualche battuta con droni – programma di attacchi che rappresenta l’iconografia dell’impegno counter terrorism di Obama, e che il presidente aveva addirittura promesso di sospendere cavalcando il consenso dopo le proteste per le vittime civili (ma i raid continuano, gli ultimi hanno seccato diversi talebani in Waziristan tra ieri e oggi).

Ma come si presupponeva, Maliki non ha chiesto solo l’aiuto americano: il Times annuncia che sarebbero arrivati in queste ore, 150 elementi della Qods Force iraniana, supportati dall’unità d’élite Saberin. Ma Teheran starebbe anche pensando all’invio in massa di combattenti Basij.

In attesa che le truppe di Teheran entrino in azione, gli unici che reggono sul campo, comunque sia, sono i curdi, che a quanto pare avrebbero ripreso il controllo di Kirkuk, città tra l’altro storicamente rivendicata dal “popolo senza amici”, issando la propria bandiera sui palazzi del governo locale, al posto di quella irachena. I curdi sono tanti, 190 mila combattenti peshmerga si dice, e anche se sono meno armati dell’Isis – e dell’esercito iracheno – sono molto determinati. Ora Maliki li usa come userebbe chiunque, per tenere in piedi la baracca, ma quando tutto finirà vorranno una legittima contropartita per l’aiuto.

A proposito di contropartita: con il tavolo di confronto sul nucleare in corso, l’Iran userà l’aiuto militare “boots on the ground” come merce di scambio? L’Occidente potrebbe ripagare con qualche concessione in più, la possibilità di tenere “la mani pulite” dal conflitto?

@danemblog


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