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No a espropriazioni private per ridurre il debito pubblico. Parla Giampaolo Galli

È giusto e realistico mobilitare le risorse dei fondi pensione e delle casse previdenziali per favorire la crescita economica e tagliare il debito pubblico? L’ipotesi sarebbe stata esaminata e discussa nel corso di incontri informali tra i responsabili del Tesoro e i rappresentanti di investitori e risparmiatori, come svelato da Formiche.net. Una tesi che alimenta non poche perplessità. Soprattutto se applicata nella versione “polacca”.

Il governo di Varsavia, per far calare il passivo di bilancio dal 53 al 45 per cento del PIL, ha approvato il trasferimento coercitivo dei 37 miliardi di titoli sovrani detenuti dai fondi pensione.

Per capirne la legittimità e la percorribilità in Italia Formiche.net si è rivolta a Giampaolo Galli, parlamentare del Partito democratico già direttore generale di Confindustria.

Quali sono le misure necessarie e urgenti per abbattere il passivo di bilancio?

Penso che l’unica strada sia mantenere un elevato avanzo primario per lungo tempo e procedere a privatizzazioni, come ben spiegato nel Documento di economia e finanza del governo Renzi. Non ritengo vi siano altre ricette. Le varie proposte di condividere una parte dell’onere del nostro debito richiede il consenso degli altri Paesi europei. Come italiano lo auspico, ma lo vedo poco probabile.

È possibile ridurre il peso del debito con una grande opera di ristrutturazione?

Ho letto sul Corriere della Sera e anche sul Sole 24 Ore ipotesi concernenti la ristrutturazione forzosa o straordinaria del debito pubblico. È una tesi che circola in pensatoi italiani e stranieri, ma per fortuna non nel governo. Si tratta del peggiore degli scenari possibili.

Perché?

Una ristrutturazione del passivo di bilancio deve essere considerevole sul piano quantitativo. La misura dell’intervento deve attestarsi almeno al 30-50 per cento del Prodotto interno lordo. Ma sarebbe di fatto un pesantissimo prelievo fiscale, di gran lunga più doloroso delle scelte compiute dal governo Monti, con effetti recessivi sulla domanda interna. Non si tratta di un’alternativa all’odiata austerità, ma della forma più estrema di austerità. Peraltro chi propone tale ricetta spesso vuole ritornare a spendere e fare debito. Ma questa è un’illusione. Dopo la ristrutturazione vi è soltanto ulteriore austerità.

La “nazionalizzazione” strisciante o il “parziale esproprio” delle risorse previdenziali private attuata in Polonia per ridurre il debito è condivisibile?

Spaventerebbe e allontanerebbe i risparmiatori, poiché si tratterebbe di mettere le mani sul risparmio privato. E su un comparto strategico che si organizza per fornire la previdenza integrativa ai lavoratori. Una ricetta del genere offrirebbe sollievo contabile alla finanza pubblica, ma provocherebbe effetti deleteri per l’economia. Altro tema è incoraggiare e favorire l’investimento produttivo tramite i fondi pensione. I cui attivi sono sbilanciati sui titoli di Stato per oltre la metà delle risorse, rispetto a un volume del 14,4 per cento convogliato su azioni di cui appena lo 0,9 per cento italiane.

Come si possono orientare tali fondi verso l’economia reale?

Persuadendo gli stake-holder dei fondi che nel lungo termine l’investimento azionario produce un rendimento più elevato per i trattamenti previdenziali. Ma tutto ciò non deve essere forzato attraverso interventi obbligatori in nome di finalità “politiche” per quanto meritevoli. Perché scoraggerebbe le adesioni ai fondi pensione.

Una strategia analoga è immaginabile per Cassa depositi e prestiti?

CDP già esercita un ruolo molto attivo a favore del tessuto produttivo nazionale. Lo fa in forma diretta, tramite fondi dedicati, o attraverso agevolazioni per l’accesso al credito.

Per ridurre di 200-300 miliardi il debito il renziano Marco Carrai propone un fondo cui conferire la ricchezza immobiliare pubblica non valorizzata, allocandone gli asset a investitori istituzionali, fondi sovrani e titolari di Bot.

Vi sono esperienze di nazioni che hanno realizzato strategie del genere. Ma è una strada molto complessa. Funziona se alla fine gli investitori comprano le passività di tale fondo. E ciò accade se sono convinti del valore dei beni, e se hanno la certezza di divenirne proprietari e di poterne disporre. Pertanto è necessario cambiare la destinazione d’uso e riconvertire le strutture pubbliche, a partire dalle caserme, per rendere appetibile l’operazione. È un lavoro complesso, capillare, meticoloso, da condurre con spirito certosino e perizie accurate. Non vi sono scorciatoie. Poi vi è un punto interrogativo.

Quale?

Creare un unico fondo di grande dimensione rischia di costituire una centrale di potere enorme. A governarla non può essere lo Stato, bensì un complesso di grandi banche e imprese italiane che si fanno carico dell’iniziativa per vendere. Ma la costruzione di un simile trust presenta gravi incognite e suscita molte perplessità sotto il profilo della concorrenza economica e del pluralismo politico.


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