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Don Alfredo sarà l’angelo del Mondiale. Il taccuino di Malgieri

Sandro Mazzola l’ha definito sul Corriere della sera “il dio del calcio”. Ed è onestamente difficile, comunque la si pensi sulle dinamiche del football, dargli torto. Alfredo Di Stefano è stato davvero un irraggiungibile calciatore “totale” con spiccata tendenza offensiva e dunque incline a segnare valanghe di gol, ma anche interditore e costruttore di gioco come pochi al mondo e ne sono visti.

Il mitico “inventore” del Real Madrid, Santiago Bernabéu, lo portò in Europa dalla Colombia, dove giocava da straniero – era argentino di origini italiane – con i Millionarios di Bogotà. Il geniale “presidentissimo”, in realtà, aveva attraversato l’Atlantico per prendersi un altro autentico fenomeno: Valeriano Lopez Mendiola, campionissimo con l’attitudine tipica di tanti sudamericani a gettare via la propria vita. Non ne volle sapere di lasciare la sua terra e non cedette alle lusinghe di Bernabéu il quale pur di non tornare in patria a mani vuote si comprò Di Stefano che gli fece vincere cinque Coppe dei Campioni.

Don Alfredo se n’è andato, come immaginavamo qualche giorno fa apprendendo la notizia dell’ennesimo infarto che lo aveva colpito, in un ospedale di Madrid. Aveva ottantotto anni. Era presidente onorario del Real. Ne ha viste tante, in campo e fuori. Non è riuscito a vedere le partite dei “due mondi” tra Germania e Brasile  e Argentina e Olanda. Vogliamo sperare che tutte e quattro le nazionali onoreranno il calcio nel suo nome che certamente, insieme con quel pazzo di Valeriano, il colombiano dimenticato, sorriderà guardando i “nuovisti” sconvolgere ruoli e tattiche senza neppure sospettare che lui li aveva preceduti di almeno settant’anni. Don Alfredo sarà l’angelo del Mondiale brasiliano, con buona pace degli eterni litiganti e degli ultimi presunti geni che non hanno ancora vinto neppure la metà di quel che vinse lui in tutti e due i mondi che tra oggi e domenica si sfidano.

Inutile chiedersi che cosa c’è da attendersi dal doppio incontro euro-sudamericano. Abbiamo visto ed abbiamo capito che la globalizzazione non ha reso il calcio mondiale migliore. Ne ha abbassato il livello. Lo ha reso omogeneo, a parte rare eccezioni. Non ci sono più dèi da venerare, né sacerdoti di tecniche da seguire. La velocità è tutto, lo spazio è sempre più ristretto e l’inventiva latita. Lo spettacolo s’è rarefatto. I “mistici” come David Luiz si affidano agli spiriti animali dell’eterno Brasile per aver la meglio sulla Germania che ha in Mats Hummels il nuovo idolo. Ma senza Neymar, si dice, sarà tutta un’altra partita. Siamo rassegnati. Ragionevolmente, dal momento che il giovane campione del Barcellona non è che abbia fatto vedere le stelle. E neppure il suo compagno di squadra in Spagna, Lionel Messi ha fin qui stupito più di tanto. Rimpiangiamo il tempo di Kempes e di Maradona anche se i soliti Soloni sostengono che l’Argentina di oggi è più forte di quella che trionfò nel 1978 e nel 1986, ma vince di meno.

Neppure l’Olanda è più la stessa. E Robben ci piace assai, molto più di van Persie. Ma li ricordate quegli oranje che fecero tremare il Monumental di Buenos Aires? Con Krol e Rensenbrink, Neeskens e i due Van de Kerkhof assistemmo ad uno stordente moto perpetuo che ingannò perfino l’arbitro, tutt’altro che eccelso, tale da costringere la difesa della Seleccion ad attaccare, a fare di Passarella un provvisorio centrattacco e  di Bertoni, ala di professione e di Luque trequartista, occasionali difensori. La vittoria arrise all’Albiceleste in maniera pulita, per quanto le circostanze non fossero delle migliori e i calciatori che nulla avevano a che fare con i banditi che governavano l’Argentina, furono costretti a prendere la Rimet dalle mani insanguinate di Jorge Videla. Ma Carlos Menotti ed i suoi ragazzi non vinsero per “quei figli di puttana” in divisa, come fu detto, ma per il popolo sofferente che per una notte, quella del 25 giugno, non si riempì delle urla strazianti dei torturati, ma delle grida festanti di chi non aveva niente se non il proprio orgoglio da mostrare al mondo e la speranza di una vita possibile.


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