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Geopolitica dello stile pallonaro. Il taccuino mundial di Malgieri

Non sono d’accordo con chi sostiene che il mondo ha imparato a giocare. Sono convinto che tutti, più o meno, giocano alla stessa maniera. Il che non vuol dire che giocano bene. Alcune nazionali eccellono su altre: questo è indiscutibile. Ma lo standard medio è tutt’altro che spettacolare, proprio perché manca chi fa la differenza.

Abbiamo avuto in passato grandi stagioni dominate dai brasiliani, ancor prima dagli uruguaiani, poi dagli inglesi (che hanno vinto meno di quanto avrebbero potuto guardando comunque sempre gli altri con quella superiorità che ritengono acquisita per il fatto di aver inventato il football), quindi è stata la volta degli olandesi, degli argentini e dei francesi.

Gli italiani, mai originalissimi, e tutt’altro inclini a creare una “scuola” (anche se il “catenaccio” ed il “contropiede” sono state le specialità della casa per lungo tempo), hanno comunque segnato più di un’epoca e furono sorprendenti nelle due Coppe Rimet vinte prima della guerra, come nei due Mondiali conquistati nel 1982 e nel 2006. Gli spagnoli si sono inventi un modulo originalissimo costruito più che sui fuoriclasse, a differenza dei sudamericani e per una breve stagione degli olandesi, su un “collettivo” formato dall’integrazione dei due grandi blocchi del Real Madrid e del Barcellona.

Gli africani, che pure in questo Mondiale hanno fatto vedere cose egregie, hanno potenzialità che non riescono ad esprimere: quattro anni fa sembrava la volta buona e rimanemmo delusi; nel corso della competizione brasiliana, algerini e nigeriani sono andati vicinissimi a traguardi insperati anche se il calcio continentale migliore lo ha probabilmente espresso la Costa d’Avorio, mentre il Camerun, da cui ci si attendeva molto, non è mai entrato nel torneo da protagonista: eccessiva sindacalizzazione, si dice, ma c’è anche chi adombra la solita storia di una combine nella quale sarebbero coinvolti ben sette giocatori.

Insomma, se tutti giocano alla stessa maniera, e cioè mediamente bene (a parte alcune deprimenti eccezioni che non vale neppure la pena citare), dipende dall’europeizzazione del calcio che, sostanzialmente, esprime moduli utilitaristici, per quanto veloci ed aggressivi, ma poco incoraggianti le tecniche individuali che da sempre esaltano un gioco che vive soprattutto d’invenzione. Nel nostro Continente milita  oltre l’ottanta per cento di coloro che hanno preso parte al Mondiale. Sono i club, dunque, a favorire l’omologazione e, nello stesso tempo, a spegnere i fuoriclasse che pure ci sono, ma che tuttavia – si converrà – neppure possono essere paragonati a quelli di un tempo intorno ai quali si costruivano le squadre e spesso, da soli o quasi, erano in grado di risolvere partite impossibili o “fabbricarne” alcune perfette.

Guardando gli Ottavi spassionatamente (se mai è possibile: io ho tifato Colombia e Svizzera come se fossero le mie nazionali), si è avuta la sensazione che nessuna squadra fosse superiore all’altra. Forse soltanto l’Uruguay è stata nettamente inferiore alla Colombia. Gli esiti maturati negli altri sette incontri hanno confermano ampiamente che tra Brasile e Cile, Francia e Nigeria, Germania e Algeria, Olanda e Messico, Costarica e Grecia, Argentina e Svizzera, Belgio e Stati Uniti, fino all’ultimo istante (e non è un caso che tre sono finiti ai tempi supplementari e due ai rigori), abbiamo assistito ad un equilibrio che ha lasciato poco spazio alla spettacolarità, al bel gioco, alle forti emozioni a parte alcuni episodi più da thriller calcistico che da futebol bailado.

Se questo vuol dire che tutti hanno imparato a giocare al calcio lo si può anche accettare, come si accetta l’evoluzione di una specie o di un progetto. Ma ciò non significa che il calcio sia migliorato complessivamente. Al contrario si è globalizzato negli stili, negli atteggiamenti, nelle pretese, come se parlasse un linguaggio universale. E per quanto siano cambiati i rapporti di forza nell’ambito del movimento calcistico mondiale (la supremazia delle federazioni sudamericane e delle relative rappresentative è incontestabile) sia pur con minime differenze tecnico-tattiche gli americani (del Sud, del Centro e del Nord) giocano come gli europei, gli asiatici come gli africani e chi ha visto l’Australia in azione non ha certo colto un approccio “originale” rispetto al modo stesso di schierare la formazione in campo.

Diciamo piuttosto che i valori tecnici di nazionali come l’australiana, non diversamente da quella neozelandese vista in altre occasioni, per quanto inferiori perfino a quelli iraniani e giapponesi che pure, rispetto a  ciò che si vede su tanti campi di calcio europei e latino-americani non hanno sfigurato, possiamo ritenerli più che accettabili. Insomma, rassegniamoci. Le “leggende” appartengono al passato, come quelle squadre coese, spettacolari, che “giocavano a memoria”, vincevano ed entusiasmavamo: il grande Torino ed il funambolico Brasile, per esempio. Ma non solo.


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