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Il rapporto tra Israele e l’Islam moderato

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Esiste l’Islam moderato sunnita oggi? Con i tempi che corrono, l’espressione “Islam moderato” può sembrare addirittura un ossimoro, ma ci sono esempi attuali di questo ircocervo che è opportuno studiare, per uscire dalla morsa composta dal jihad della spada da un lato e dai suoi “compagni di strada” dall’altro. Che sarà una morsa terribile soprattutto per tutte le popolazioni arabe, nel futuro.

Israele ha sempre adottato, soprattutto nella fase della guerra fredda, un approccio che favorisce l’amico lontano (anche islamico) rispetto al nemico vicino, ugualmente musulmano.
Ma, in quel caso, c’era il nazionalismo arabo, certamente contrario allo Stato Ebraico, ma ugualmente estraneo al radicalismo religioso, in nome di una sorta di “mazzinianesimo dei popoli arabi” che era il simmetrico e contrario culto del nazionalismo democratico e radicale sionista, anch’esso derivato dall’ideologia dell’Apostolo delle Nazioni.

Il marxismo sovietico, che dopo il XX Congresso del PCUS del 1956 polemizza contro Stalin ma, soprattutto, privilegia le “borghesie nazionali” contro gli stessi partiti comunisti periferici, penetra nei movimenti borghesi, e quindi nazionalisti, come il Baath sirio-iracheno, il Wafd egiziano, l’HASD giordano e, nelle petromonarchie del Golfo, si staglia all’orizzonte un legame tra l’URSS e i suoi Servizi e la Fratellanza Musulmana.

Prima della criminale follia delle “Leggi Razziali” del 1939, Mussolini aveva simpatia per il sionismo “revisionista” di Vladimir Jabotinsky, e fu organizzata addirittura una scuola, a Civitavecchia, di marineria civile per i giovani del Betar revisionista.
Una soluzione potrebbe venire studiando l’islamismo delle repubbliche musulmane della ex-URSS, Kazakistan, Turkmenistan, Kirgizistan, Tagikistan, Azerbaigian, Turkmenistan e Uzbekistan.

Si tratta di una popolazione di oltre 165 milioni di esseri umani, e vale quindi studiarla come fenomeno di massa islamica.
Nelle repubbliche già sovietiche dell’Islam centroasiatico, moschee, madrasse, centri culturali sono finanziati in gran parte dalle comunità islamiche nazionali, senza particolari sostegni da parte dei Paesi islamici mediorientali.

Ma la WAMY, World Assembly of Muslim Youth e la Lega Islamica (la Rabita) concedono spesso borse di studio agli studenti islamici dell’Asia Centrale, ma, e questo è importante, tramite le loro sezioni nei vari paesi ex-sovietici, con l’ovvio permesso (e occhiuto controllo) dei rispettivi governi.

Certo, in Uzbekistan gli Imam devono predicare in arabo coranico, pressoché incomprensibile alle masse locali, un po’ come accadeva quando, con la Messa in latino, le vecchiette semianalfabete, nelle nostre campagne, storpiavano la lingua di Cicerone, con risultati spesso esilaranti.

L’IRP, il Partito del Revival Islamico, alla caduta dell’URSS non è stato riconosciuto in Uzbekistan, e il suo leader Abdullah Uttar è stato addirittura posto in prigione.
Qui la differenza tra Islam moderato e jihad, “della parola” e “della spada”, si colloca, come in tutto il sistema centroasiatico, in un contesto di rinato nazionalismo etnico, spesso con il ritrovamento delle antiche tradizioni pre-islamiche identitarie, e inoltre in un meccanismo di sostenuta crescita economica, che rende le Repubbliche ex-URSS di religione islamica poco interessate all’aiuto interessato delle petromonarchie del Golfo (o della Turchia).

Un altro modello al quale è possibile fare riferimento è l’Islam moderato dalla Tunisia, perfino dopo la Rivoluzione dei gelsomini e la destrutturazione di tutto il Maghreb definita poi “primavera araba”.
Mohammed VI del Marocco, un altro modello di Islam “moderato”, ha pregato nella moschea di Cartagine con il primo ministro tunisino Mancef Marzouki i primi di giugno 2014, e in quella occasione è stato siglato un accordo tra la monarchia alawita (non le senso degli alauiti siriani e turchi, comunque) e il governo di Cartagine, l’antica avversaria di Roma, per una formazione in Marocco degli Imam tunisini.

Il problema è che, paradossalmente, l’Islam jihadista pone un pericolo mortale per l’unificazione del Maghreb, dove il Corano si è sempre adattato con i culti e le deità precedenti, e perfino con il Cristianesimo e l’Ebraismo anticamente radicatisi nell’area.
Le donne marocchine islamiche portano doni a Lalla Mariam, la nostra Madonna, il contatto con l’Ebraismo locale ha portato l’Islam maghrebino ad un sincretismo pacifico, come quello della Siviglia maomettana, dove, magari, il medico del Califfo era un personaggio come l’ebreo Ibn Zabara, l’autore delle fiabe conosciute in italiano come Il libro delle delizie.

Quindi, l’Islam moderato, che è quello vero, quello del Califfato che realmente è esistito, quando il Khalifa di Istanbul ironicamente ringraziava i Re spagnoli della Reconquista per avergli spedito, con l’Editto contro i “Mori” del 1492, la migliore classe dirigente di medici, filosofi, uomini d’affari ebrei in fuga dall’Inquisizione che, lo ricordava Voltaire nel suo Dizionario Filosofico, si basava su una volgare truffa documentale.

In altri termini, l’Islam non è radicale quando: 1) si sovrappone a tradizioni forti e culturalmente elevate che non hanno mai avuto interruzione nel popolo, e che reagiscono con il “Global sunni Islam” nazionalizzandolo, e si pensi qui al caso dei Berberi dell’Atlante marocchino e algerino, 2) quando è stato subito controllato da case regnanti, come quella del Marocco, che hanno avuto sempre la capacità di controllare capillarmente la società civile, 3) quando le classi dirigenti hanno sempre avuto la possibilità di aprirsi all’Occidente nella loro formazione.

Osama Bin Laden studia in Arabia Saudita, viene influenzato da un professore dei Fratelli Musulmani, ha contatti, sia pure in una ricchissima famiglia, solo superficiali con l’Occidente.

Con gli sciiti la questione è diversa. Qui il progetto di unificare la Sh’ia da parte dell’Iran è evidente, per conquistare la leadership islamica globale contro i sunniti del Golfo.
E però la scuola di Najaf ha sfornato, con la “scuola di Khoei” molti Imam che rifiutano il velajat-e-faqih, la guardiania del giurista khmoenista, e sta costruendo, anche nel tormentatissimo Libano, una linea sciita che potremmo definire pacifica con aperture al liberalismo occidentale.

Si tratta di imam sciiti come Mohammad Mahfouz ed altri in Arabia Saudita, Nader Kazim in Bahrain, al Mawla nello stesso Libano.
La linea di questi gruppi sciiti è quella di rifiutare la primarietà del giurista islamico, lo abbiamo detto, ma anche l’odio verso le altre religioni, il rifiuto di ogni stato fondato sulla sola religione.

In Iraq, anche in questi giorni, opera un Centro Iraqeno Sciita per il Dialogo Interreligioso. Bisogna liberare questa gente dalle grinfie di Teheran.
Lo stesso sta accadendo, in area sunnita, nel contesto indonesiano.

Quindi, ancora, occorre: a) stabilire un ruolo non transitorio delle tradizioni mistiche e quietiste dell’Islam, come il filone Sufi, il cui partito, per esempio, in Egitto, ha sempre fieramente contrastato il jihad “a lunga corsa” dei Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi; b) rafforzare i temi nazionali e identitari delle tante aree islamiche, che sono fortissimi e bruciano sotto la cenere, e c) rafforzare infine, lo diciamo con assoluta chiarezza, i sistemi politici come quello marocchino dove la libertà di espressione è equilibrata da una straordinaria capacità delle Casa Reale alawita nel controllo molecolare della società.

Già Hassan II del Marocco fu salvato ben due volte da un golpe islamista, la prima volta dalla baraqa (fortuna) in volo, la seconda dalla pistola sempre pronta dell’Ambasciatore italiano di allora, lo splendido e irripetibile Amedeo Guillet, il vecchio Kummandant Shaitan degli eritrei, che usò con la sua consueta perizia la pistola tra le pieghe del suo abito da sera.

Ecco: l’Islam non deve fare paura a nessuno, non deve stimolare attitudini di sudditanza per alcuno, deve mostrare la debolezza del jihad della spada, che è quella, paradossalmente, di tutte le uscite violente dalla crisi della globalizzazione, anche in Occidente.

Se stimoleremo la modifica dell’Islam, come sta facendo Israele nelle sue ripetute guerre regionali con gli Hezbollah a nord e Hamas a sud, creeremo il clima in cui, ben prima di quanto non si pensi, il jihad “ della spada” si spegnerà.

Nessuna ideologia della assimilazione, che non esiste nemmeno nei testi primari, non a caso Al Baghadi mostra sul polso destro la scritta coranica “differenziatevi dagli Ebrei e dai Nazareni”, ma una politica culturale dello scontro pacifico e della differenziazione non violenta, diversamente da quanto accade in molti ambienti cattolici e ingenui e in gran parte del mainstream laicista e globalista, che spera che la lotta contro il Corano si trasformi presto nella guerra al Vangelo.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa

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