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Problemi, dubbi e prospettive sul Califfato islamico dell’Isis

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il 29 Giugno 2014 Abu Bakr al Baghdadi, ovvero Dr. Ibrahim oppure Abu Dua, il leader dell’ISIS ( o ISIL) Islamic State in Syria (oppure nel Levante) ha dichiarato il Califfato, denominandosi come Califfo Ibrahim, con un dominio posto tra il Nord-Est della Siria e l’Iraq occidentale.

Nel diritto islamico, il Califfo, l’Amir al muminun, “il comandante dei Credenti” applica il Corano, lo interpreta negli stretti limiti del testo (ed ecco qui il Califfato tipico dei sunniti, legati, invece degli sciiti, ad una lettura letteralista del Sacro Rotolo) e i fedeli gli devono obbedienza senza limiti territoriali.

Il Califfo è giudice e controllore insieme dell’applicazione della Legge lasciata dal Profeta Muhammad, nella logica politica arabo-islamica non c’è separazione tra Stato e Comunità dei Credenti (umma) come invece accade nel Cristianesimo, che separa rigidamente Cesare e Dio.

Il Khalifa può essere eletto dai fedeli, o più spesso nominato dai governi, ma nel diritto islamico la questione è ambigua, essendo la Legge positiva derivata dal Corano sostanzialmente consuetudinaria.
Quindi, essendo il Califfo Ibrahim non nominato dal Governo, che non c’è, né dai fedeli, che non lo hanno proclamato tale, il ruolo di Al Baghdadi, in punta di diritto islamico, è sostanzialmente privo di legittimità.

Ma la questione politica rimane: stiamo verificando la destrutturazione delle linee di faglia che erano state create dopo la Prima Guerra Mondiale, e che si fondavano su stati-nazione arabi laici e, spesso, modellati sul nazionalismo sociale del primo Novecento europeo.
E ognuna delle trecento milizie che insanguinano oggi la Libia, potrebbe proclamare un Califfo, ma il frazionismo spesso violento del jihad libico non lo renderebbe certo legittimo, e questo vale per tutti i gruppi jihadisti, ovunque essi combattano.

I circa trentacinque gruppi di “jihad della spada” operanti in Siria, e sostenuti da Stati veri e non semplicemente dichiarati, come il Qatar, l’Arabia Saudita, la Turchia e la Libia, oltre a un paradossale sostegno degli USA si creeranno certamente il loro piccolo Califfato, sostenendo ognuno di essere il Vero Islam.
Anche qui, come diceva Pietro Nenni, “c’è sempre un puro più puro che ti epura”.

Il socialismo nazionale dell’Egitto di Nasser, quello del Baath iracheno e siriano (e il Baath era stato fondato da un cristiano, Michel Aflak, ricordiamolo) o ancora quello dell’Iran di Mossadeq, una nazione non ancora ossessionata dalla Sh’ia, erano sistemi di protezione economica delle loro industrie, che operavano “in sostituzione” rispetto a quelle occidentali dei loro ex-colonizzatori europei.
E si ricordi qui la modernizzazione “a lunga corsa” che la Tunisia di Sant’Agostino e Tertulliano subisce nella deislamizzazione, accolta con passione dal popolo e gestita da Habib Bourghiba.

Proteggere dal mercato-mondo o dallo “scambio ineguale” con gli ex-”padroni” europei, per usare la vecchia formula economica di Arghiri Emmanuel, il proprio mercato-nazione è la chiave politico-economica del nazionalismo parasocialista di tutto il mondo arabo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della decolonizzazione.

Le risorse da distribuire, per i Paesi nazional-sociali del mondo arabo, venivano dall’esportazione di materie prime protette (petrolio, metalli non-ferrosi, talvolta alimentari) e dai prezzi politici del mercato interno, tenuti artificialmente bassi e spesso sussidiati.

Qualcosa però cambia con la Guerra del Kippur, che genera, dopo la sua rapida cessazione, un canale riservato di riciclaggio dei petrodollari da Riyadh verso New York, messo in piedi direttamente da Kissinger.
Ed è qui si genera una asimmetria di sviluppo e di relazioni geostrategiche tra i Sauditi e i grandi produttori petroliferi del Golfo sunnita e le aree islamiche meno fornite di idrocarburi, che marcano il passo, non “tengono” più la loro popolazione, non sono rilevanti per nessuno dei due Rivali strategici, USA e URSS.

Lo switch tra USA e URSS, quando occorre, era un ulteriore elemento di creazione di surplus economico. Si pensi qui all’Egitto di Anwar El Sadat, che manda via in una notte i “consiglieri” sovietici, che pure rimarranno per un lungo periodo in Egitto come rete occulta.
Con la fine della guerra fredda e la conseguente apertura globale dei mercati, questo sistema economico, anche se sostenuto dalla straordinaria rendita petrolifera, salta.

Fra l’altro, come si è visto in Libia, o oggi in Arabia Saudita, tanto maggiore il reddito generato dagli idrocarburi, tanto maggiore è l’asimmetria distributiva interna e il correlato livello di repressione politica.
Il Califfato è quindi una risposta, certo idealistica proprio nella sua violenza, all’emarginazione e al frazionamento dell’universo sunnita. E ricordiamo qui che l’Iran attuale sta creando un suo Imamato, che andrà dal Teheran fino all’Azerbaigian, alla Siria alawita, dall’Iraq al Bahrain, con le ridefinizioni territoriali derivanti dalla separazione degli sciiti che avverrebbe in Libano, nello Yemen (e la famiglia di Osama Bin Laden veniva dall’Hadramaut, territorio di confine saudita con lo Yemen, mai del tutto adattatosi al wahabismo di regime) in Kuwait, nella Turchia degli Alevi (alawiti) in Afghanistan, in Pakistan e in India.

Due ridisegni delle linee di faglia del mondo islamico, certo ben diverse da quelle un po’ sempliciste che applicarono gli inglesi nella separazione tra India e Pakistan nell’Area dei Cinque Fiumi del Punjab, errore foriero di tutte le guerre indo-pakistane successive.
Può esistere un Califfato universale sunnita? Improbabile: c’è la già citata differenza tra le aree più ricche di idrocarburi e le altre, e poi, chi sarebbe a nominare il Khalifa globale? Anche tra i sunniti, le differenze religioso-politiche (e razziali) sono numerose e determinanti.

Avremo un Califfato a guida hanafita, i “razionalisti” dell’Islam, forti in Egitto, Iraq, Turchia, nei Balcani, oppure un Khalifa della scuola malikita, legata all’uso dei medinesi quando non contrasta con il Corano e gli hadith, la scuola della Spagna islamica e della Sicilia araba. Oppure shaifita, hanbalita (la tradizione seguita da Bin Laden e da Al Qa’eda) o zahirita?

L’Islam dei primi Califfi Ben Diretti è stato un tentativo di unire popolazioni diversissime tra di loro ma con un forte sostrato politeista. Possiamo dire che non c’è molto riuscito, visto l’immenso numero di rituali, oggetti sacri, preghiere e stili di vita che si sono mantenuti intatti nel grande mondo dell’Islam.

Il Califfato è, prima di tutto una Riforma violenta interna all’Islam, poi il calcolo di un peso specifico antioccidentale (gli “Ebrei e i Crociati” maledetti da Osama) che può essere raggiunto solo unendo tutto l’Islam, e la rivolta dei Credenti poveri, che sono ovunque, contro i maomettani ricchi, e ricchi appunto perché “servi degli occidentali” tramite il petrolio e il gas naturale.

Tutte ipotesi realistiche, è bene dirlo, ma di difficile realizzazione.
Motivi? I “poveri” stanno scoprendo giacimenti di gas e petrolio rilevanti, l’Occidente è entrato in una crisi economica strutturale che lo rende sempre meno consumatore di idrocarburi ai livelli del passato, il petrolio dei “vecchi” paesi islamici dell’OPEC (compresi quelli sciiti) è probabilmente in fase di esaurimento (le riserve dei pozzi sauditi sono un segreto di Stato, a Riyadh) e poi il petrolio ha oggi bisogno di tecnologie estrattive che solo l’Occidente possiede.

Ma il pericolo del mito del Califfato è molto forte, e sarà un’ideologia terzomondista che probabilmente sarà più forte del mito marxista-leninista della Terza Internazionale.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa

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