Il disegno di legge delega, incardinato in Commissione Lavoro del Senato di cui è relatore il presidente Maurizio Sacconi, slitta a settembre, dopo che erano state effettuate alcune votazioni, poi l’iter si era arenato sull’emendamento a prima firma Ichino, che conteneva, sia pure in forma molto sintetica anche per una norma di delega, le questioni, tra loro collegate, del c.d. codice del lavoro semplificato e del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Diciamoci la verità: non siamo in presenza di un semplice rinvio dovuto all’insorgere dei citati contrasti di merito all’interno della maggioranza e al sovraccarico di provvedimenti (quasi tutti decreti legge da convertire prima della loro scadenza) che il governo Renzi, accecato dalla voglia di strafare, ha accumulato alla stregua dell’apprendista stregone della favola che, alla fine, non riesce più a gestire le forze che lui stesso ha irresponsabilmente attivato.
Il disegno di legge delega conteneva la polpa del Jobs Act e traduceva in norme, sia pure con il tratto incompiuto della delega, tutto quanto, negli ultimi anni, la sinistra (nell’espressione del riformismo immaginifico) aveva promesso di fare, in materia di lavoro, una volta che fosse tornata al governo del Paese. Il rinvio ha il sapore amaro dell’archiviazione: in autunno, il Jobs Act si trasformerà in un frutto fuori stagione, se non addirittura in un pesce d’acqua dolce sbattuto all’improvviso in mezzo ai marosi dell’oceano in burrasca. Del resto, strada facendo, il provvedimento aveva già cambiato pelle, nel tentativo di fornire qualche risposta ai problemi di un mercato del lavoro che non sapeva che farsene delle idee politicamente corrette che lo avevano ispirato al momento della sua presentazione.
La delega ha rappresentato, infatti, il compitino svolto, nei primi giorni di scuola, dalla band of brothers di Matteo Renzi, allo scopo di dimostrare che loro avevano studiato, che conoscevano a menadito le proposte dei “maestri” – da Tito Boeri a Maurizio Ferrera per arrivare a Pietro Ichino – e che, da riformisti ed innovatori, erano andati al potere per portare avanti quelle idee, fino ad allora neglette e contrastate – non solo dalla destra neoliberista – ma anche dalla sinistra contraria a #cambiareverso.
Così, quella parte del Jobs Act era divenuta una sorta di supermercato del “nuovo che avanza”. Vi si poteva trovare di tutto, buttato giù alla rinfusa nell’ansia da prestazione: dal contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con funzioni di inserimento nel mercato del lavoro, agli ammortizzatori sociali a carattere universale (estesi cioè a tutti i lavoratori, anche a quelli ora esclusi), al reddito minimo (di quale tipo?), fino alle politiche di conciliazione (di cui non avrebbe potuto dimenticarsi un esecutivo tanto attento ai problemi della parità di genere).
Nel frattempo, però, si accompagnava, alla “torah” del sapere giuslavorista, il decreto Poletti (convertito con modifiche): un provvedimento che ha liberalizzato, per tutta la durata consentita, il contratto a termine, sottraendolo all’obbligo della indicazione di quella “causale” che per anni ha alimentato un contenzioso giudiziario subdolo, nei confronti del quale le aziende erano indifese, alla mercé dei giudici propensi ed autorizzati, dalla genericità del “causalone”, ad intromettersi ad libitum nella vita e nell’organizzazione dell’impresa. Il decreto Poletti, invece, ha trasformato il contratto a termine nel canale di accesso e di assunzione (ancor) più gradito alle imprese. Basti pensare che nel programma Garanzia Giovani ben 3 mila delle opportunità di lavoro – sulle 4 mila fino ad ora offerte dalle imprese – riguardano contratti a tempo determinato, una forma che viene preferita anche ai rapporti maggiormente precari, proprio in conseguenza del minor rischio di controversia che le nuove disposizioni assicurano.
A fronte di una riforma tanto significativa realizzata per decreto (si pensi che dopo l’entrata in vigore della legge Poletti sui contratti a termine sono crollate persino le assunzioni a tempo indeterminato promosse con robusti incentivi – fino a 650 euro mensili per 18 mesi – dal decreto Giovannini) che senso poteva ancora avere l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti?
Anche se il legislatore si fosse deciso ad alleggerire le norme a salvaguardia del licenziamento illegittimo passando da una regola di tutela reale (con tanto di reintegra giudiziaria) ad una di carattere obbligatorio (limitata al solo risarcimento del danno, almeno durante i primi anni di servizio), il nuovo contratto a termine rimaneva comunque più sicuro per il datore, se è vero che – come sosteneva Marco Biagi – nessun incentivo economico è in condizione di compensare un disincentivo normativo. Ecco perché, se si voleva attribuire un senso ed una qualche utilità al nuovo contratto a protezioni crescenti, occorreva “stupire tutti con effetti speciali”: abolire l’art. 18, lasciando operante la reintegra solo nel caso di licenziamento discriminatorio.
Ma questo coraggio non c’è stato e forse non ci sarà mai, anche perché non ce ne sarà più bisogno: attraverso l’utilizzo del contratto a termine riformato ed “acausale” le imprese hanno risolto il loro problema. La sinistra vuole imbalsamare l’articolo 18? Si accomodi: è ora che i morti seppelliscano i morti. Quanto al resto del disegno di legge delega, c’è forse qualcuno che ritiene possibile un ampliamento della copertura degli ammortizzatori sociali o l’istituzione di un reddito minimo in autunno, quando il problema sarà quello di evitare il commissariamento da parte della Troika?