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La guerra (anche) social, tra Israele e Hamas

«Chiunque sia ucciso o martirizzato deve essere chiamato “un civile di Gaza o di Palestina”, prima di parlare del suo ruolo nella jihad, o il suo grado militare. Non dimenticate di aggiungere sempre “civile innocente” o “cittadino innocente” nella descrizione di quelli uccisi negli attacchi israeliani su Gaza». Il Jerusalem Post (full disclosure ripreso anche da Rivista Studio), cita un report del Middle East Media Research Institute (organizzazione spesso accusata di parteggiare pro-Israele, da dire anche questo full disclosure) in cui si riportano le linee guida per l’uso dei social network, diffuse da Hamas attraverso la pagina Facebook del ministero dell’Interno – il virgolettato appena sopra, arriva proprio da lì.

«Evitare di entrare in una discussione politica con un occidentale volta a convincerlo che l’Olocausto è una menzogna; invece, mettere sullo stesso piano con i crimini di Israele contro i civili palestinesi», è un’altra di quelle regole da tenere a mente prima di postare su Facebook o Twitter qualsiasi cosa sulla guerra in corso – il New York Times scrive che esiste anche un video, una sorta di tutorial su Youtube, sempre opera del ministero palestinese.

Gli israeliani, da parte loro, da tempo diffondono propaganda del tutto analoga: video in cui i combattenti di Hamas hanno la testa dei personaggi di Angry Birds, si alternano a quelli in cui le azioni dell’IDF sono accompagnate da colonne sonore hollywoodiane.

La storia si racconta, per creare il consenso e l’opinione: e in fondo è tutto lì il problema. Il Guardian ha pubblicato un editoriale molto lucido, in cui definisce la guerra in corso «futile». Un modo per mostrare i muscoli reciprocamente, al fine di ottenere una «dominazione psicologica sull’altra parte» dimenticando i rispettivi abitanti, scrive il giornale inglese.

A questo punto, in effetti, la caccia agli armamenti, la distruzione dei tunnel, sembrano aver preso posto nel sedile posteriore, così come gli obiettivi di Hamas – che attualmente non sono quelli da statuto, la distruzione di Israele, ma si limitano al blocco dell’embargo e all’arrecare più danni possibile a Israele. Entrambe le parti vogliono sventolare un trofeo: Netanyahu non può fermarsi, Hamas cerca una testa da mostrare – in questa che sta diventando una guerra d’immagine. La tremenda escalation dopo la domenica insanguinata di due giorni fa, ha un nome e un cognome: Shaul Oron, 21 anni. Nella ricomposizione dei resti dei militari all’interno del blindato colpito da un missile anticarro palestinese a Sajaya, manca il suo corpo. L’esercito prima ha parlato di sette uomini uccisi, ma poi ha corretto a sei. Il sergente della Brigata Golani non si trova, forse è stata portato via dai miliziani palestinesi che hanno compiuto l’attacco, probabilmente ferito: possibile che sia la sua la testa da mostrare al nemico così come pure ai proseliti – ancora prima che per contrattare, per dimostrare, per autorevolezza.

Come ogni volta nella ciclicità di questi scontri, si è raggiunto il punto di rottura: con gli uomini IDF che stanno perdendo il controllo, anche a causa dell’inattesa preparazione dei miliziani di Hamas – «sembrava di combattere con Hezbollah» ha commentato un comandante israeliano citato in un pezzo di Anna Momigliano su Studio – innescando un loop che appare senza fine.

A tutto si sommano le narrazioni – mai, secondo gli analisti, così martellanti, e dire che questa guerra ne è storicamente zeppa.

Lo scrittore Etgar Keret, ebreo della periferia est di Tel Aviv, ha confessato al New York Times che la cosa che lo ha sconvolto di più nel modo utilizzato dai media – israeliani – di raccontare il conflitto, è il termine “non coinvolti” a sostituzione della parola “civili”. «Quello ucciso, non era un bambino che voleva imparare a suonare il pianoforte, ma era solo un qualcuno che non spara contro di noi» ha detto Keret.

Dalia Gavriely-Nuri, studiosa associato con l’università di Gerusalemme e Tel Aviv, esperta del “linguaggio di guerra”, ha sottolineato come in ebraico l’operazione Protectiv Hedge diventi “strong cliff”, “scogliera imponente” – tagliando con l’accetta la traduzione. Secondo Gavriely il richiamo alle “forze naturali” alleggerisce le responsabilità per la campagna militare: «Nessuno è responsabile se si è seduti sotto uno tsunami». Un processo psicologico, con cui far affrontare ai propri cittadini la distruzione e le morti, supportato da una quarantina di operatori che l’IDF ha messo dietro i monitor di un’unità interattiva che ripercorre i passi di Aliza Landes, soldatessa che con il suo blog raccontò per prima, live, le mosse del suo esercito durante l’attacco del 2009: la diffusione per alleggerire il peso dell’azione.

Basta seguire, anche qui in Italia, l’hashtag #GazaUnderAttack o quell’altro, #IsraeleUnderFire – qui lo sbilanciamento è opposto a quello militare, dato che il primo è stato usato 4 milioni di volte, il secondo 170 mila (fonte Topsy).

Se non fosse una parola troppo carica di significati – e molto spesso di stanca retorica – si potrebbe parlare di disumanizzazione del conflitto: ormai tutto conta solo come immagine, mostra, dimostrazione, per imprimere pressione, paura, deterrenza, nell’avversario. Ed è per questo, in fondo, che si lotta nella Striscia – dimenticandosi spesso delle persone, come ha scritto il Guardian.

 

@danemblog

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